Le foto dell’alta moda di Parigi, che si fanno sempre notare

Cioè gli abiti sfarzosi, elaborati, strani, a cui pensiamo quando pensiamo alle sfilate

Una modella vestita con una replica della sede di Dior a Parigi, 1 luglio 2019
(AP Photo/Michel Euler)
Una modella vestita con una replica della sede di Dior a Parigi, 1 luglio 2019 (AP Photo/Michel Euler)

Si è conclusa oggi la settimana della haute couture, l’alta moda parigina, durante la quale 35 aziende hanno presentato le loro collezioni per l’autunno-inverno 2019/2020. Contrariamente al prêt à porter, che fa sfilare i capi dell’anno dopo, l’alta moda propone quelli della stagione immediatamente successiva.

La haute couture è considerata l’origine della moda e rappresenta il vero lusso, con abiti sartoriali, stampe ricercate, tessuti pregiati, tulle, intarsi, ricami, che richiedono centinaia di ore di realizzazione. Per essere considerata di haute couture, un’azienda deve rispettare i parametri stabiliti del ministero francese dell’Industria e dalla Federazione francese della moda: deve avere un laboratorio a Parigi con non meno di 20 dipendenti a tempo pieno; presentare due collezioni l’anno, ovviamente a Parigi, per un totale di 50 vestiti; confezionare abiti su misura che le clienti possano provare personalmente. Oltre alle aziende parigine, ogni anno ne vengono invitate altre come “corrispondenti” – che hanno laboratori fuori Parigi, come le italiane Armani Privé e Valentino e la libanese Elie Saab – e come “ospiti”, tra cui la cinese Guo Pei e la libanese Zihair Murad.

Tra le sfilate di cui si è parlato di più c’è stata la prima haute couture di Chanel non disegnata da Karl Lagerfeld (il celebre stilista a capo dell’azienda per 35 anni, fino alla morte avvenuta lo scorso febbraio) ma da Virginie Viard, la sua principale collaboratrice, che ne ha preso il posto. Come succederà ancora per molto tempo, gli abiti e l’ambientazione – un’immensa libreria – sono stati un omaggio a Lagerfeld ma si è visto anche uno spostamento di attenzione dagli abiti a chi li indossa, con linee comode, tessuti morbidi, giacche, tute e un abito da sposa con pantaloni larghi e cappotto da stringere in vita.

Maria Grazia Chiuri, la prima direttrice creativa di Dior, ha realizzato una collezione un po’ meno femminista del solito – di solito insiste molto sul tema – e limitandosi a un unico e più misurato slogan: “Are Clothes Modern?”, una domanda posta dall’architetto e scrittore Bernard Rudofsky alla prima mostra di moda del Museum of Modern Art di New York, del 1944. È stata una «processione di vestiti da principessa», ha scritto la critica di moda del New York Times Vanessa Friedman, incentrata sull’idea che sia ogni singola donna a decidere come vestirsi. Altre due stiliste protagoniste di queste sfilate sono state l’olandese Iris Van Herpen, che combina il lavoro artigianale con la tecnologia (come stampe e tagli realizzati con il laser), e la britannica Clare Waight Keller da Givenchy che, scrive Friedman, «ha portato un po’ di anarchia» con una collezione fatta di «elaborata spensieratezza e con un’energia che è mancata molto in una settimana dove è stata la regola puntare sul sicuro e sull’imponente».

È stata un successo la prima collezione dello stilista texano Daniel Roseberry per l’azienda italiana Schiaparelli: non ne ha riproposto il catalogo e i motivi che l’hanno resa famosa (come i disegni di labbra e di aragoste), ma lo spirito, l’abilità di costruire una moda divertente e spensierata «mentre tutto attorno cadeva a pezzi, come oggi», ha detto Roseberry. La collezione più apprezzata di tutte è stata, anche questa volta, quella del direttore creativo Pier Paolo Piccioli per Valentino. È stata una celebrazione della diversità, dell’individualismo, della stravaganza intesa come libertà di espressione. Piccioli si è in particolare ispirato al progetto Worlds in a Small Room (1974) del fotografo di moda Irving Penn, che a sua volta esaltava le tante idee di bellezza al mondo. Alla fine della sfilata, lo stilista si è presentato a raccogliere l’applauso di un pubblico commosso – dove c’era l’immancabile fondatore del marchio, Valentino Garavani – insieme alle sarte dell’atelier: ogni abito porta il nome di una di loro.