Il cashmere fa male all’ambiente

E sempre più aziende – da H&M a Gucci – non lo usano più o stanno cercando alternative sostenibili e rispettose degli animali

I(AP Photo/Massoud Hossaini)
I(AP Photo/Massoud Hossaini)

Il Wall Street Journal racconta che la produzione di cashmere sta diventando un problema per l’ambiente, tanto che molte aziende di moda stanno cercando alternative o stanno rinunciando del tutto a usarlo. Il cashmere è una lana pregiata, dal filato sottile e morbido, realizzata con il pelo invernale delle capre hircus, che vivono negli altipiani e in alcune regione montuose asiatiche, in particolare in Iran, Afghanistan e soprattutto Cina e Mongolia, che forniscono il 90 per cento del cashmere totale in tutto il mondo. Viene ottenuto pettinando a mano gli animali quando mutano pelo, in primavera; da ogni esemplare si ricavano dai 100 ai 200 grammi di lana.

Un tempo il cashmere era una fibra rara e di lusso, ma negli ultimi anni è entrata nel mercato dell’abbigliamento di massa: prezzi più economici significano maggior quantità di lana a disposizione e greggi sempre più numerosi, con milioni di capre che attraversano le steppe in Cina, in Mongolia e al confine tra i due paesi. La conseguenza è uno sfruttamento intensivo del terreno: secondo dati recenti del governo mongolo circa il 60 per cento dei pascoli si è inaridito, con ampie zone trasformate in deserto. Sempre secondo le autorità mongole, nel 2016 il 23 per cento dei pascoli era stato danneggiato gravemente o completamente, il 13 per cento in più del 2014; nello stesso periodo l’estensione dei terreni che avranno bisogno di almeno 10 anni per riprendersi o che potrebbero non farlo mai è aumentata del 5 per cento.

Un altro problema è il maltrattamento delle capre da parte dei mandriani. Di recente l’agguerrita ong ambientalista PETA ha denunciato la crudeltà degli allevamenti in Cina e Mongolia, pubblicando anche un video della pettinatura piuttosto violenta delle capre: lo trovate qui. L’indagine ha spinto l’azienda di moda H&M ad abbandonare entro il 2020 la vendita di prodotti in cashmere. Altre stanno cercando vie alternative, per esempio Stella McCartney e Patagonia non utilizzando più cashmere vergine ma soltanto rigenerato e ottenuto da scarti e ritagli. In Italia Re.Verso è una piattaforma di aziende tessili che recuperano materiali di scarto, compreso il cashmere, e li trasformano in tessuti e filati da riutilizzare.

Altre aziende stanno provando a intervenire direttamente sulla catena di produzione del cashmere, cosa però molto difficile per la quantità di intermediari e perché è complicato controllare che i mandriani abbandonino le pratiche tradizionali. Kering, per esempio, compra cashmere solo dai mandriani che seguono alcune linee guida, come variare periodicamente i pascoli, permettendo alle zone sfruttate di riposare e far crescere nuova erba.

Il mercato del cashmere riguarda da vicino anche l’Italia. La lana raccolta dalla Mongolia attraversa il confine e arriva nelle fabbriche cinesi, dove viene spesso mescolata con quella di pecore cresciute in Cina; qui la lana viene trasformata in vestiti o spedita in Europa e in particolare in Italia, dove viene lavorata e commercializzata in tutto il mondo. L’aumento delle greggi in Asia ha fatto crescere le esportazioni di cashmere dall’Italia, che sono passate da 171 milioni di euro del 2008 a 305 milioni nel 2018, pari al 4 per cento delle esportazioni di tutto l’abbigliamento italiano.