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  • Giovedì 16 maggio 2019

Investire a fin di bene

Sempre più persone scelgono di investire denaro su chi offre prodotti o servizi sostenibili per l'ambiente o con un valore sociale

L'installazione dei pannelli fotovoltaici in una centrale a energia solare da 40 megawatt del Gruppo Huaneng a Huai an, in Cina, l'11 giugno 2018 (VCG/VCG via Getty Images)
L'installazione dei pannelli fotovoltaici in una centrale a energia solare da 40 megawatt del Gruppo Huaneng a Huai an, in Cina, l'11 giugno 2018 (VCG/VCG via Getty Images)

Nel 2008 Liesel Pritzker, erede di una delle più facoltose famiglie americane, quella degli hotel Hyatt, aveva 24 anni e un patrimonio di 500 milioni di dollari, che voleva investire in modo da ottenere profitti e al tempo stesso fare buone azioni. Per questo, ha raccontato all’Economist un paio di anni fa, si informò con i suoi consulenti bancari sui cosiddetti “investimenti a impatto positivo”, quelli per cui gli obiettivi di sostenibilità ambientale e valore sociale prevalgono sui ritorni economici: «Non capirono di cosa parlavo e si offrirono di togliere dal mio portafogli azionario le aziende legate al tabacco». Delusa di non aver trovato l’appoggio che cercava, nel 2012 Pritzker fondò insieme al marito Ian Simmons un proprio fondo, il Blue Haven Initiative: è uno dei più grandi al mondo dedicati unicamente agli investimenti a impatto positivo.

Per molto tempo chi voleva investire il proprio denaro in modo consapevole, responsabile e attento alle politiche di sostenibilità delle aziende riceveva risposte approssimative come quelle ottenute da Pritzker nel 2008, ma negli ultimi dieci anni le cose sono cambiate: è cresciuto in modo rilevante il numero di persone che si preoccupano di rispettare i propri valori etici negli investimenti, cioè di fare investimenti sostenibili e responsabili (SRI).

L’anno scorso Bloomberg insieme al Morgan Stanley Institute for Sustainable Investing ha intervistato un gran numero di gestori patrimoniali americani per capire quanto siano diffusi gli SRI: il 75 per cento ha detto che la propria società offre strategie per fare investimenti di questo tipo. Nel 2016 lo aveva fatto il 65 per cento degli intervistati. L’89 per cento dei gestori ha detto di ritenere che gli investimenti di questo genere non siano una moda; secondo il 63 per cento il settore continuerà a crescere nei prossimi cinque anni. Più di tre quarti degli investitori più giovani (i millennial e quelli della cosiddetta “Generazione Z”) vogliono conoscere l’impatto ambientale e sociale delle società in cui investe, e anche gli investitori più anziani danno importanza a questi aspetti visto quanto se ne parla.

In Italia, secondo l’ultima analisi dell’European Sustainable Investment Forum (Eurosif), un’associazione pan-europea che si occupa di promuovere gli investimenti sostenibili, sono ancora pochi gli investitori istituzionali (cioè le banche, le società assicurative, i fondi di investimento e le holding finanziarie, tra gli altri) che sono entrati nel mercato degli SRI. Tuttavia c’è stato un notevole aumento di questo tipo di investimenti negli ultimi due anni. Nel 2015 erano stati investiti solo 2 miliardi di euro unicamente nelle società che offrono prodotti o servizi legati alla sostenibilità ambientale (in gergo tecnico si parla di “investimenti a tema sostenibile”): nel 2017 sono stati 53 miliardi. C’è stata una crescita anche per quanto riguarda gli investimenti a impatto positivo (quelli per cui il valore sociale e ambientale è più rilevante per gli investitori dell’immediato ritorno economico): nel 2015 erano stati investiti solo 3 miliardi di euro, nel 2017 invece 52 miliardi.

La storia degli investimenti “etici”
Gli investimenti che tengono conto dei valori etici degli investitori non sono una novità da millennial, anche se con l’aumento dell’attenzione per il cambiamento climatico si sono molto più diffusi rispetto al passato. Le prime persone a fare investimenti responsabili furono gli uomini d’affari statunitensi che per motivi religiosi (erano cristiani quaccheri e metodisti) non volevano sostenere il commercio di schiavi o di armi, e poi di tabacco e alcol. Negli anni Venti negli Stati Uniti nacquero i primi fondi di investimento “responsabili”, che escludevano dai propri portafogli società che operavano in questi settori.

Tra gli anni Settanta e Ottanta, grazie a una nuova attenzione per alcune situazioni geopolitiche, ci fu un’evoluzione degli investimenti “responsabili”: in particolare, molti decisero di escludere dai propri portafogli le azioni di società legate in qualche modo al regime sudafricano, quello dell’apartheid. Il governo degli Stati Uniti iniziò a indagare su quante aziende americane stessero investendo in società sudafricane che violavano principi etici: di conseguenza diminuì notevolmente la quantità di investimenti americani in Sudafrica, cosa che ne indebolì il regime. Da allora si è passati a tenere in considerazione molti più aspetti per valutare l’etica di un investimento.

Quando gli esperti oggi parlano di investimenti che tengono conto di valori etici, fanno riferimento ai cosiddetti criteri ESG: E sta per environmental, cioè “ambientali”, S per social, cioè “sociali”, e G per governance, cioè di gestione. I criteri ambientali riguardano l’impatto che un’azienda ha sul cambiamento climatico, la quantità di acqua, di gas metano e di plastica che utilizza per le sue attività, e quanto terreno occupa. I criteri sociali riguardano invece il rispetto che l’azienda ha dei diritti umani e dei diritti dei lavoratori, il rapporto che ha con i propri dipendenti e con gli abitanti delle aree in cui opera. Infine i criteri di gestione si riferiscono al rispetto dei regimi fiscali, agli stipendi dei dirigenti, alla presenza di corruzione, al processo di nomina degli amministratori e alla sicurezza informatica.

Non esistono standard di settore uniformi perché un pacchetto d’azioni sia considerato rispettoso dei criteri ESG, ogni agenzia di rating fa le proprie valutazioni. Tuttavia dal 2005 le società possono seguire i sei Principi per l’Investimento Responsabile (PRI) messi insieme da un gruppo di esperti di investimenti internazionale su richiesta dell’allora segretario generale dell’ONU Kofi Annan. Sono indicazioni molto generali, ma per ora sono le uniche condivise in gran parte del mondo: più di 1.750 investitori istituzionali da più di 50 paesi le hanno firmate.

Oltre agli standard con cui vengono valutati i criteri ESG, nel mondo degli investimenti sostenibili e responsabili si distinguono anche diverse strategie, a seconda di quanto l’investitore vuole “impegnarsi”. Sia nel caso degli investimenti dei quaccheri, che in quello degli investitori che volevano contrastare l’apartheid, la strategia era la stessa, quella più semplice, della selezione per esclusione: si smetteva di investire in società ritenute poco etiche, facendo una specie di obiezione di coscienza. Oggi lo si fa ancora con il tabacco, le armi e il gioco d’azzardo (in Italia nel 2015 si investirono 570 miliardi di euro seguendo questa strategia, nel 2017 1.500 miliardi secondo i dati di Eurosif) e sempre di più con le aziende petrolifere e le altre legate all’estrazione e all’utilizzo di combustibili fossili, per ragioni ambientali. Tra chi lo ha fatto nel 2018 c’è il fondo sovrano dell’Irlanda, il primo paese a fare questa scelta, e la città di New York.

La strategia seguita da Liesel Pritzker con il Blue Haven Initiative invece si avvicina molto di più alla filantropia: negli investimenti a impatto positivo si dà più importanza agli obiettivi di sostenibilità e valore sociale che ai ritorni economici. Tra questi due estremi ci sono tante altre strategie per coniugare investimenti e valori etici, tra cui gli investimenti a tema sostenibile, quelli che privilegiano le società che per un dato comparto economico danno i risultati migliori (selezione di titoli “best-in-class”, nel gergo) e l’azionariato attivo. Quest’ultimo è la strategia dei gruppi di persone che investono molto in una società per ottenere un peso rilevante nel suo consiglio di amministrazione e influenzarne le attività. Con questo obiettivo capita che azioni di aziende che hanno a che fare con i combustibili fossili finiscano nei portafogli dei fondi responsabili.

Gli investimenti “etici” convengono?
Negli anni Settanta l’importante economista liberista Milton Friedman (1912-2006) sosteneva che gli investimenti fatti in ottica di responsabilità sociale fossero un’interferenza dannosa per i risultati economici delle aziende. Negli ultimi anni però questo punto di vista è passato in secondo piano, mentre fondi di investimento tradizionali, e senza particolari finalità etiche, si sono sempre più avvicinati al rispetto dei criteri ESG, soprattutto quelli in campo ambientale. È probabile che in futuro, nel medio e nel lungo periodo, le aziende poco attente alle questioni che riguardano l’ambiente vengano penalizzate se non sapranno adattarsi alle nuove esigenze di sostenibilità a livello mondiale.

Sembra inoltre che i fondi responsabili ottengano risultati migliori nei periodi di crisi. È successo ad esempio l’anno scorso, il peggiore dalla crisi del 2008 per gli investitori, negli Stati Uniti: i fondi responsabili sono andati meglio degli altri e per il terzo anno consecutivo hanno battuto i record di investimenti. Poi è vero che se l’unico fine di un investimento è il profitto, certe strategie di investimento più tradizionali possono essere più redditizie, ma non è detto che sarà sempre così.

Questo articolo fa parte di un progetto sponsorizzato da Fidelity International, una delle più importanti società di gestione di fondi di investimento al mondo.