I “drop” stanno cambiando la moda

È una strategia di vendita arrivata dallo streetwear ma che ora usano tutti: è fatta di lunghe code, esclusività, mercati paralleli e Instagram

di Arianna Cavallo

In coda di notte per il drop di una maglietta di Nike, Denver, Colorado, 2012
(Doug Pensinger/Getty Images)
In coda di notte per il drop di una maglietta di Nike, Denver, Colorado, 2012 (Doug Pensinger/Getty Images)

Sedici secondi: è il tempo in cui venne venduta tutta la collezione nata dalla collaborazione tra l’antica azienda di valigie tedesca Rimowa e il marchio di streetwear Supreme, nonostante un prezzo di partenza di 1.600 dollari (1.400 euro) per articolo e un avviso mandato solo tre giorni prima sui social network. Sono numeri che fanno capire bene il successo delle collaborazioni tra aziende diversissime tra loro che si affiancano per penetrare in nuovi mercati, e soprattutto di uno dei fenomeni che stanno cambiando la moda negli ultimi anni: il “drop”.

Il drop – dall’espressione inglese “far cadere” – indica la messa in vendita di prodotti in edizione limitata e in piccole quantità in pochi negozi selezionati, spesso con breve o nessun anticipo sui social network. È una tecnica di marketing tipica dello streetwear, lo stile nato negli anni Ottanta e Novanta nel mondo degli skaters e dei surfisti californiani, e poi dell’hip hop e della breakdance, che è diventato il più importante degli ultimi anni in tutto il mondo fino a influenzare le aziende di moda di lusso.

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Fino a qualche anno fa le aziende di moda tradizionali preparavano due collezioni all’anno – una per la primavera/estate e una per l’autunno/inverno – e facevano arrivare nei negozi i vestiti tutti in una volta. I primi marchi di streetwear invece – come la statunitense Supreme e le giapponesi Bathing Ape e Undercover – inventarono una nuova strategia di marketing e di vendita, il drop appunto, in cui i prodotti arrivavano regolarmente nei negozi in piccole quantità e, una volta esauriti, non venivano realizzati più. La vendita non faceva quindi leva sulla qualità dei prodotti e nemmeno sul costo, ma sull’esclusività, sul “one-chance-to-buy”, “compri ora o mai più”.

Supreme per esempio mette in vendita ogni giovedì qualcosa di nuovo nel suo negozio di punta a Soho, a New York, e puntualmente si formano lunghissime code prima dell’orario di apertura, alle 11. Spesso il prodotto (una felpa, una maglietta con un logo, una sneaker o un oggetto bizzarro) viene esaurito in poche ore, tanto più se disponibile anche online, lasciando moltissimi clienti in coda a mani vuote, che si riversano così sui mercati secondari.

Il drop ha così dato vita a un fitto sistema dove i prodotti sono rivenduti a prezzi rincarati, su eBay, ma soprattutto su siti nati apposta e dedicati ai drop, nuovi o di seconda mano: tra i più famosi e forniti ci sono Grailed, StockX e Heroine. Qui una semplice t-shirt che in negozio viene venduta a 50 dollari può raggiungere i 200 dollari di prezzo, scrive il sito Grand Forks Herald; una fascia per capelli venduta da Supreme a 32 dollari arriva a 150, e per una felpa con il logo da 168 dollari ci vogliono tra i 1.100 e i 1700 dollari. Il costo aumenta nel caso di una collaborazione tra marchi, che sono un evento particolarmente atteso e richiesto. Nel 2017 Louis Vuitton e Supreme realizzarono insieme magliette, zaini, felpe e anche una serie di bauli, che diventarono subito tra gli oggetti più desiderati della storia delle collaborazioni: al momento del drop la felpa con il monogramma costava 869 dollari ma su eBay si poteva trovare poco dopo a 25 mila dollari; il prezzo delle magliette salì da 450 dollari a 3-5 mila dollari mentre il baule Malle Courrier partiva da 129 mila dollari. Un’altra collaborazione di successo è stata quella di Supreme con l’azienda di abbigliamento tecnico North Face, con alcuni modelli di giacche che sui rivenditori si trovavano dai 2.000 dollari in su.

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Apparentemente le aziende non guadagnano da questo mercato parallelo, a parte il prestigio che deriva dall’aumento strabiliante dei prezzi. In realtà è un sistema spesso alimentato da appassionati di moda che possono permettersi una maglietta a 400 dollari soltanto vendendo a prezzi altissimi un prodotto “dropped” che si sono accaparrati con lunghe ore di attesa.

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Il drop venne reso famoso e universale dallo streetwear ma nacque nei primi anni Ottanta nelle aziende di abbigliamento sportivo che vendevano prodotti simili, come magliette e sneaker: Nike per esempio lo faceva abitualmente con il marchio di scarpe Jordan. Ben presto venne adottato dallo streetwear, con marchi come Supreme, Stussy e FUCT e negozi newyokesi come Training Camp, Flight Club, Bodega e Kith; un movimento simile c’era anche nella Tokyo degli anni Novanta, animato soprattutto da Hiroshi Fujiwara, considerato il padre giapponese dello streetwear, dal fondatore di Undercover, Jun Takahashi, e da quello di Bathing Ape, Nigo.

Questa affinità facilitò le prime collaborazioni tra marchi dello streetwear e dello sport. La più famosa è The Ten, realizzata nel 2017 da Nike e Off White, l’azienda milanese dello stilista Virgil Abloh, ora direttore creativo della moda maschile di Louis Vuitton. Si trattava di dieci sneaker Nike disegnate da Abloh; in particolare la Nike Air Jordan 1 “Chicago” venne scelta come miglior sneaker del 2017 dal sito Highsnobiety, un punto di riferimento dello streetwear. Ora una Off-White “Chicago” Jordan 1 costa tra i 2.000 e i 7.000 dollari.

Proprio il 2017 venne definito dal New York Times “l’anno del drop”: fu allora che le grandi aziende di lusso consolidarono le collaborazioni con lo streetwear e si impossessarono della loro strategia di marketing. Oltre a Nike e Adidas, arrivarono Gucci, Louis Vuitton e Burberry, mentre diventava comune anche nelle aziende di cosmetica, come quelle di Kylie Jenner e Kim Kardashian, e addirittura del cibo: la catena di fast food Shake Shack per esempio mette a disposizione menu solo sulla app, come incentivo a scaricarla e per testare se i piatti piacciono ai clienti prima di introdurli sul mercato.

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Il drop funziona soprattutto perché risponde alle necessità del mondo contemporaneo, fatto di voglie che devono essere esaudite subito e da un desiderio di esclusività e di appartenenza che viene alimentato dai social network. I social inoltre permettono di oltrepassare la copertura dei media tradizionali e parlare direttamente al pubblico: da un lato aumentano l’attesa, dall’altro creano un senso di appartenenza, la community, che desidera possedere gli oggetti del marchio per sentirsene parte: «il punto non è stare in coda per comprare un oggetto nuovo – spiega David Fischer di Highsnobiety – Il punto è essere lì e far parte di quella comunità».

Il successo dei drop è inoltre reso possibile da un altro avanzamento tecnologico, cioè la rapidità di produzione e distribuzione, ed è per questo che fenomeni simili si erano già affacciati in altri mercati. Secondo Ana Roncha, responsabile del master in Marketing della moda al London College of Fashion, il drop venne infatti anticipato da aziende di fast fashion come H&M, Zara e Primark, cioè quelle che vendono cose alla moda a prezzi molto accessibili: «è la fast fashion che ci ha abituato alle consegne continue di prodotti. – spiega – Ha creato un senso di urgenza di comprare, di andare nei negozi ogni settimana e acquistare subito qualcosa perché la settimana dopo potresti non trovarla più». Quello che hanno aggiunto i marchi di streetwear è stato un po’ di segretezza e di esclusività.

L’interesse delle aziende di lusso sta cambiando da un lato la natura del drop, dall’altro la struttura e la comunicazione delle stesse aziende. Alcune stanno cercando di inventare nuovi modi di farlo, per esempio Burberry li annuncia il 17 di ogni mese; Nike ha usato la realtà virtuale, e per comprare su app un suo paio di sneaker bisognava puntare lo smartphone in posti specifici di New York. Molti marchi, come Public School e Alexander Wang, hanno deciso di non partecipare più alla Settimana della moda di New York a favore di un approccio più diretto, realizzato spesso attraverso il drop; Nike ha deciso di tagliare la rete di distribuzione e selezionare solo 40 rivenditori, su 300 mila attuali, con cui lavorare strettamente su prodotti esclusivi e personalizzati; Adidas sta investendo per velocizzare le sue fabbriche e restringere il classico tempo di sei mesi che va dall’ideazione di una scarpa alla sua vendita in negozio. Secondo Jeff Carvalho, direttore di Highsnobiety, il drop potrebbe funzionare non solo per i giovani ma anche in altre fasce di età, semplicemente perché è eccitante: «pensate a tutte le mamme, i papà e i nonni che comprano qualcosa per le figlie, i figli e i nipoti, e che non sono abituati a questo modello. Ora possono comprare qualcosa che è davvero figo e che altrimenti non sarebbe disponibile per loro».

Gli esperti sono ovviamente divisi sul futuro del drop: alcuni, come Lawrence Schlossman di Grailed, sono convinti che sia arrivato un punto di saturazione e che i clienti si stiano scocciando delle file esagerate per ore se non giorni. Secondo altri invece è una forma che durerà, a patto di evolversi. Alcune aziende per esempio hanno trasferito il drop sulle app, come la piattaforma di e-commerce Shopify che nel 2016 ha lanciato una apposita app, Frenzy, che funziona anche per le vendite al volo di arte, musica e cosmetica; Nike ha inventato qualcosa di simile con SNKRS e lo stesso ha fatto Adidas con Confirmed.