Le settimane di sfilate hanno ancora senso?

Si reggono su meccanismi superati e arcaici e sono in crisi da anni: in particolare quella di New York, come ha raccontato Vox

(Dia Dipasupil/Getty Images)
(Dia Dipasupil/Getty Images)

Per decenni il mondo della moda ha orbitato attorno alle Settimane della moda, organizzate tra febbraio e inizio marzo e tra settembre e inizio ottobre nelle quattro capitali del settore: prima a New York, poi a Londra e Milano e infine a Parigi. È in questi due momenti dell’anno che le aziende più importanti fanno sfilare le collezioni donna prêt-à-porter per le stagioni successive, rispettivamente l’autunno-inverno e la primavera-estate. Negli ultimi anni questo sistema è entrato in crisi, in conseguenza dei profondi cambiamenti in cui si incrociano molti fattori: la rapidità della produzione e la possibilità di acquistare online; l’avvento e l’importanza crescente dei blogger, di Instagram e degli influencer; la crisi della stampa tradizionale; la forte domanda di nuovi prodotti da parte dei clienti.

Questi cambiamenti hanno indebolito soprattutto le Settimane di New York e Londra, favorendo in parte Milano e soprattutto Parigi, mentre piccole Settimane satelliti vengono organizzate in qualsiasi città che abbia qualche ambizione nel settore: da Tokyo a Mosca, da Mumbai a Stoccolma (dove nel 2016 parteciparono appena 25 giornalisti). In particolare, la New York Fashion Week (NYFW), che quest’anno si tiene dal 7 al 15 febbraio, è accompagnata puntualmente da editoriali che ne decretano la morte imminente, e sostengono si sia trasformata in una baracconata per celebrità, influencer e aspiranti tali, dove pullulano eventi buoni per Instagram ma dove latita la creatività. È successo anche a questo giro e il sito Vox ha provato spiegare perché.

Le Settimane della moda di oggi si sono sviluppate a partire dalle Semaine des défilés parigine di inizio Novecento, quando i venditori assumevano le modelle per indossare i vestiti nei ristoranti di lusso, agli ippodromi, nelle sale da tè. Nel frattempo si stabilirono le presentazioni di haute couture, cioè l’alta moda, che si tengono tuttora due volte l’anno, a gennaio e luglio. Il calendario ricalca quello della corte di Luigi XIV, che trasformò Parigi nel centro dell’industria tessile di lusso facendo uscire nuovi tessuti due volte all’anno: all’epoca era un’astuta strategia di marketing per vendere di più, invogliando a comprare le stoffe perché erano nuove e non perché servivano.

A New York, sull’esempio dei défilés, grandi magazzini e negozi organizzarono presentazioni simili per conquistare nuovi clienti. Parigi era all’epoca il centro della moda globale e attirava compratori e stampa da tutto il mondo. Durante la Seconda guerra mondiale la produzione si ridusse e i giornalisti americani non riuscivano a spostarsi in Francia; così nel 1943 la giornalista Eleanor Lambert organizzò la prima “press week”, la settimana della stampa, per presentare i lavori degli stilisti statunitensi. Da allora si alternarono due volte all’anno, contribuendo allo sviluppo della moda americana.

La NYFW come la conosciamo nacque ufficialmente nel 1993 quando Fern Mallis, allora direttore del Council of Fashion Designers of America (l’organo che rappresenta la moda statunitense) organizzò e ordinò le varie presentazioni – 50 in 50 posti diversi – in un calendario coerente (arrangiato per decenni dalla leggendaria Ruth Finley e stampato su un foglietto rosa) e in unìunica sede, facilitando il lavoro di giornalisti e buyers e attirandone sempre di più. «Le sfilate così organizzate misero gli stilisti americani al centro e cambiarono il panorama della moda per sempre», spiegò Mallis. Per 16 anni le sfilate vennero organizzate in tendoni allestiti al Bryant Park di Manhattan, consentendo agli ospiti di non spostarsi freneticamente e ai marchi di non preoccuparsi di gestire lo spazio, le luci, il sonoro, la sicurezza, affidati a un’unica azienda. Non significa che gli eventi non fossero costosi: nel 2007 una sfilata richiedeva almeno 50 mila dollari.

La NYFW raggiunse il picco negli anni Novanta, con l’affermarsi della moda americana nel mondo: un po’ grazie all’atmosfera della serie tv Sex and the City, un po’ grazie al successo di stilisti come Calvin Klein, che richiamavano attorno alle passerelle celebrità come Leonardo DiCaprio ottenendo una massiccia copertura mediatica. Continuò così fino a metà degli anni Duemila, quando la moda divenne il terreno imprenditoriale di molti personaggi famosi prima dell’arrivo della crisi economica globale del 2008.

Nel frattempo la NYFW era cresciuta fino a inglobare 300 sfilate. Nel 2010 il Bryant Park divenne troppo piccolo e le sfilate vennero spostate nelle piazze del Lincoln Center: era un po’ più lontano dal Garment District, dove c’erano gli studi di molti stilisti, ma c’era il 30 per cento di spazio in più e una migliore tecnologia per gli eventi digitali. L’anno dopo vennero trasmesse in streaming su YouTube le prime sfilate: fino a quel momento si partecipava solo su invito ma ora chiunque poteva assistere, anche se solo dal proprio salotto.

Internet favorì la democratizzazione della moda anche attraverso i fashion blog, dove chiunque poteva pubblicare le foto dei suoi vestiti, dare consigli sugli abbinamenti, dire la sua sulle collezioni e contribuire alla diffusione o alla stroncatura di nuove tendenze. Alcuni si imposero su altri, diventando autorevoli e finendo per affiancare la stampa tradizionale, fino a quel momento incontrastata. I marchi, a New York come nelle altre grandi capitali, iniziarono a invitare alle loro sfilate i fashion blogger, antesignani degli attuali influencer: vestiti spesso in modo vistoso per farsi notare, attiravano l’attenzione dei fotografi in attesa delle sfilate, finendo per creare uno spettacolo alternativo. Contrariamente ai giornalisti tradizionali poi, condividevano con i lettori le immagini e i video delle passerelle, allargando virtualmente la platea delle sfilate e diventando  sempre più un punto di riferimento per i loro follower.

Nel 2015 le sfilate di New York vennero spostate anche dal Lincoln Center – una sentenza aveva stabilito che lo spazio non si poteva usare per scopi commerciali – e organizzate a Clarkson Square e a SoHo. Molti stilisti però scelsero altre sedi per i loro eventi: Alexander Wang affittava enormi magazzini e le sfilate sconfinavano in feste lunghe tutta la notte, altri ripiegavano su presentazioni in showroom, più intime, curate ed economiche, considerato che nel 2014 una sfilata costava circa 200 mila dollari.

Nel frattempo gli streaming sempre più frequenti delle sfilate, l’ascesa degli influencer e la condivisione fulminea delle immagini su Instagram stavano sgretolando il funzionamento delle sfilate di tutto il mondo. L’intervallo di sei mesi tra la presentazione dei vestiti e la loro messa in vendita aveva senso se rivolta agli addetti ai lavori, ma perdeva vantaggi se offerta a un pubblico disposto a comprare subito quello che desiderava, nel momento in cui lo scopriva. Aspettare così tanto tempo avrebbe affievolito nei clienti il ricordo di un oggetto voluto, che si sarebbe poi venduto con più difficoltà. Per questo nel 2016 molte aziende, come Burberry, Tom Ford e Tommy Hilfiger, adottarono la strategia del “see now, buy now“, che permette di acquistare subito online i capi delle nuove collezioni; in alcuni casi erano rapidamente disponibili anche nei negozi. Per questo alcuni, tra cui Burberry, ora propongono collezioni in linea con la stagione in corso, facendo cioè sfilare i vestiti autunnali a settembre e ottobre, e quelli primaverili a febbraio e marzo.

Altri cambiamenti sono dovuti all’imporsi del fast fashion – quella delle grandi catene che propongono in continuazione capi alla moda ed economici – che ha abituato i clienti a trovare sempre qualcosa di nuovo da comprare. Questo ha costretto anche i marchi di lusso ad aumentare la frequenza e la quantità di capi e accessori. Il calendario tradizionale prevedeva ogni anno due collezioni donna e due uomo di prêt-à-porter (cioè i vestiti già confezionati, da indossare ogni giorno) e due collezioni di haute couture. Negli anni si sono aggiunte le collezioni resort e pre-fall – inizialmente destinate alle vacanze fuori stagione – presentate spesso con sfilate spettacolari in giro per il mondo (come Chanel a Cuba o Gucci in un cimitero francese). A queste si aggiungono le capsule collection, le collezioni speciali a tiratura limitata, con pochi capi essenziali. Per finire molti marchi hanno introdotto dallo streetwear (la moda della strada, resa famosa dai rapper) il “drop“, ovvero la messa in vendita inaspettata di un singolo capo o accessorio. Supreme, l’azienda di streetwear ad averlo reso celebre, lo sfrutta con successo da 25 anni raccogliendo a ogni nuovo lancio code di clienti in attesa. È evidente che questo meccanismo, che si regge sulla creazione dell’attesa e del desiderio attraverso internet e la pubblicità dei personaggi famosi, non ha bisogno di alcuna sfilata.

Intanto negli ultimi anni molti marchi statunitensi, come Thom Browne, Proenza Schouler, Rodarte e Altuzarra, hanno abbandonato la Settimana di New York a favore di quella di Parigi, che è sempre stata la più lunga e prestigiosa, quella che concludeva tutta la stagione con sfilate spettacolari e top-model (Londra è la più innovativa, New York e Milano le più commerciali). Man mano che Londra e New York perdono rilevanza, vengono frequentate da sempre meno buyer e giornalisti – costretti a fare i conti con sempre più appuntamenti e un budget sempre più ridotto – che affluiscono soltanto agli eventi più centrali, come appunto le passerelle di Parigi. Di conseguenza, è qui che vogliono sfilare le aziende più grosse, mentre quelle emergenti affittano negozietti e allestiscono piccoli capannoni in tutta la città nel tentativo di farsi notare. La Fédération de la Haute Couture et de la Mode – cioè l’organizzazione che rappresenta la moda francese – ha un ruolo attivo nell’attirare questi marchi, invitandoli, per riconquistare il ruolo di unica capitale della moda mondiale.