Sarebbe meglio non tingersi la faccia di nero per mostrarsi antirazzisti

Cos'è il "blackface", e perché si porta dietro una lunga storia di stereotipi e discriminazioni qui ignota per molti

“Kid Millions”, un musical del 1934. (Hulton Archive/Getty Images)
“Kid Millions”, un musical del 1934. (Hulton Archive/Getty Images)

Dopo gli episodi dei cori razzisti contro il difensore del Napoli Kalidou Koulibaly durante Inter-Napoli, moltissime persone più o meno famose hanno espresso solidarietà nei suoi confronti, condannando il razzismo. Tra questi c’è stato anche il pizzaiolo napoletano Gino Sorbillo, a capo di una famosa catena di ristoranti presente in tutta Italia e anche all’estero. Sorbillo si è fatto fotografare con un cartello con scritto “Siamo tutti Koulibaly, abbasso il razzismo”, ma soprattutto con la faccia dipinta con un colore scuro. Nelle intenzioni, con ogni evidenza, Sorbillo voleva manifestare vicinanza a Koulibaly e avversione al razzismo, ma in molti gli hanno fatto notare che il modo che aveva scelto è noto in tutto il mondo come “blackface”, una pratica che si porta dietro un significato molto razzista e che in alcuni paesi del mondo, specialmente negli Stati Uniti, è ampiamente censurata per i suoi legami con lo schiavismo e il colonialismo.

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In Italia il “blackface” è generalmente considerato innocuo, e sono relativamente in pochi a conoscerne la storia e il significato. Lo dimostra, per esempio, il fatto che sia proposto piuttosto di frequente a Tale e Quale Show, un varietà musicale che va in onda su Rai Uno e nel quale personaggi televisivi imitano cantanti famosi. È successo diverse volte che, dovendo interpretare canzoni di cantanti neri, i concorrenti si dipingessero la faccia: una pratica che sulla televisione statunitense sarebbe inconcepibile, ma che in Italia passa inosservata.

Di recente si è parlato di un episodio di “blackface” ancora più sorprendente, eppure motivato all’apparenza da ragioni simili a quelle di Sorbillo: a Monreale, in Sicilia, una scuola elementare ha realizzato un presepe vivente in cui i bambini si sono travestiti da abitanti dei vari continenti. Per rappresentare l’Africa, ai bambini è stata pitturata la faccia, e sono stati travestiti con gonnellini di liane, ossa al collo e canne di bambù. Qualcuno, pur comprendendo le buone intenzioni, ha fatto notare come la rappresentazione adottata riproponesse antichi stereotipi colonialisti e razzisti, che dipingevano gli africani come selvaggi e primitivi.

È molto frequente che le persone si dipingano la faccia in buona fede, e che una volta rimproverate si difendano spiegando di non conoscere la storia razzista del “blackface”. Succede ogni Halloween negli Stati Uniti, ed è successo di recente al calciatore Antoine Griezmann. Ma è anche frequente che il “blackface” sia accompagnato ancora oggi da forme di comicità palesemente razziste, come nel caso di un video del comico di Zelig Dado che fu molto criticato un paio di anni fa.

Il “blackface” nacque negli Stati Uniti nella prima metà dell’Ottocento, e per quasi un secolo fu una diffusa forma di intrattenimento tipica degli spettacoli dei “menestrelli”, nei quali degli attori – prevalentemente bianchi – interpretavano degli schiavi africani liberati, esibendo tutto il repertorio di luoghi comuni sulle popolazioni autoctone dell’Africa e rappresentando gli schiavi alla stregua di animali da zoo.

Queste rappresentazioni caricaturali, che ridicolizzavano gli schiavi e li identificavano con pochi tratti, spesso esagerati o inventati, ebbero un’influenza notevole sul modo in cui vennero considerati gli afroamericani nei decenni successivi. Furono gli spettacoli in “blackface” che costruirono il mito dell’africano pigro, superstizioso, pavido e buffone, che durò molto a lungo nella cultura popolare americana e che fu riproposto per esempio da molti cartoni animati della prima metà del Novecento. La cosiddetta “iconografia darky”, quella che dipingeva gli africani con la pelle nerissima, le labbra rosse e i denti e le mani bianche ebbe molto successo nei giocattoli per bambini per diversi decenni.

In Italia questo genere di stereotipi fu diffuso estesamente durante il fascismo, con le varie produzioni del regime che raccontavano la spedizione nel Corno d’Africa, dai fumetti per bambini ai documentari. Ma ci furono casi in cui, con decenni di ritardo rispetto agli Stati Uniti, il “blackface” arrivò anche al cinema, come nel film Tototruffa ’62: nel film, tuttavia, i due personaggi con la faccia pitturata erano effettivamente truffatori italiani che impersonavano dei diplomatici africani, quindi le esagerazioni e i luoghi comuni avevano un significato un po’ diverso.

Ancora nel Novecento, spesso gli attori neri erano costretti a truccarsi nello stile del “blackface”, perché era il modo in cui il pubblico bianco era abituato a vederli su un palcoscenico. Negli Stati Uniti le cose cominciarono a cambiare definitivamente con i movimenti per i diritti civili degli anni Sessanta, che tra i vari effetti provocarono una mutazione nella percezione del pubblico degli stereotipi razziali e di quello che poteva e non poteva essere rappresentato in televisione. In altre parti del mondo, il “blackface” continuò ancora per decenni: nel Regno Unito andò in onda fino al 1978 The Black & White Ministrel Show, un varietà che si basava precisamente sul “blackface”.

Anche negli Stati Uniti, in ogni caso, ci sono molte persone che negano il significato razzista del “blackface”. Di recente la popolare conduttrice della NBC Megyn Kelly ha sostenuto questa tesi, chiedendo retoricamente durante una diretta televisiva cosa ci sia di razzista nel dipingersi la faccia per imitare la cantante Diana Ross. Kelly, in sostanza, sosteneva che il significato razzista della pratica sia ormai scomparso, e che diventa innocua se applicata a un semplice travestimento di Halloween. Altri ancora sostengono che, se mossa da buone intenzioni, sia una forma di umorismo come un’altra.

In molti, però, credono che non sia possibile scindere il “blackface” dal suo significato storicamente razzista. Altri ancora sottolineano come sia una forma di umorismo pigra e banale, che è ripetuta oggi come un secolo fa senza particolari elaborazioni o evoluzioni che la adattino al senso comune contemporaneo per quanto riguarda l’integrazione e le discriminazioni. Nella maggior parte dei casi, poi, chi si dipinge la faccia non conosce la storia della pratica e i danni che ha causato: una forma di ignoranza che, secondo molti, dice delle cose su quanta poca sensibilità e consapevolezza ci sia su questi temi.