L’uomo della moda più potente che non avete mai sentito nominare

È Imran Amed, il fondatore della rivista "Business of Fashion", considerata la più autorevole e influente del settore

Imran Amed con le modelle Bella e Gigi Hadid alla presentazione di BoF500 durante la Settimana della moda di New York, 9 settembre 2018
(Brent N. Clarke/Invision/AP)
Imran Amed con le modelle Bella e Gigi Hadid alla presentazione di BoF500 durante la Settimana della moda di New York, 9 settembre 2018 (Brent N. Clarke/Invision/AP)

Uno degli eventi più attesi della Settimana della moda di New York – quando dal 6 al 14 settembre le aziende statunitensi presentano le collezioni per la primavera-estate 2019 – è la serata di gala organizzata dalla rivista Business of Fashion, in cui vengono annunciati i cosiddetti BoF500, le 500 persone più significative della moda al mondo, che la rivista sceglie dal 2013. Quest’anno la serata si è tenuta domenica e tra gli ospiti c’erano modelle, imprenditori, stilisti, giornalisti, tra cui Gigi e Bella Hadid, Rosie Huntington-Whiteley, Silvia Venturini Fendi, Tommy Hilfiger e Pete Nordstorm. L’evento conferma ogni anno l’importanza di Business of Fashion, che in pochi anni si è trasformata da un blog scritto di notte e nei ritagli di tempo dal suo fondatore Imran Amed alla testata più autorevole nel mondo della moda, soprattutto per gli aspetti economici, industriali, di analisi e di visione del sistema.

Tim Lewis ha raccontato sull’Observer la storia della rivista, che definisce «l’oracolo nel mondo dello stile»: iniziò nel gennaio 2007 quando Amed, che ora ha 43 anni, decise di rivoluzionare la sua vita. A 29 anni aveva fatto tutte le scuole giuste e lavorato nelle aziende più prestigiose, ma non era soddisfatto e si sentiva svuotato e depresso. Viveva a Londra, a Notting Hill, ma era cresciuto a Calgary, in Canada, dove i suoi genitori si erano trasferiti poco prima che nascesse; erano di origine indiana ma cresciuti in Africa, e si erano conosciuti a Nairobi, in Kenya. Dopo aver studiato in Canada, alla McGill University, e negli Stati Uniti, alla Harvard Business School, Amed si trasferì in Regno Unito per lavorare come consulente della società McKinsey & Co. Ogni tre mesi gli era affidata una nuova azienda, di cui doveva comprendere i punti deboli e correggerli per portarla al successo.

Un giorno, durante una riunione con otto colleghi, si accorse che erano tutti uomini e indossavano camicie con scacchi proporzionali al loro ruolo nell’azienda; lui invece aveva una maglietta arancione: si sentì un pesce fuor d’acqua e decise di cambiare. Si prese un anno sabbatico da McKinsey e andò dieci giorni in Sudafrica in un centro di meditazione buddista che imponeva il silenzio assoluto. Fu lì che ebbe l’idea di occuparsi dell’industria della moda, di cui non conosceva nulla se non alcuni amici che ci lavoravano: sarebbe stato il posto perfetto per quelli come lui, ossessionati da dati e analisi di mercato. «I creativi guardavano con aria di sufficienza alla gente della finanza», ricorda. «Quelli della finanza invece erano affascinati dai creativi, ma non capivano il loro modo di lavorare. Ma sono entrambe cose fondamentali e devono collaborare».

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Inizialmente Amed voleva creare una piattaforma di lancio per i giovani stilisti britannici. Iniziò facendo consulenze a grosse aziende, come LVMH, uno dei più grandi gruppi del lusso al mondo, e Net-a-Porter, una delle maggiori aziende di e-commerce. Intanto di sera, dal suo appartamento di Notting Hill, raccontava quel mondo sul suo blog; la fondatrice di Net-a-Porter, Natalie Massenet, fu la prima persona a dirgli che sarebbe potuto diventare «qualcosa di veramente grosso». Business of Fashion ebbe anche la fortuna di nascere in un momento storico ideale: in quell’anno uscì il primo iPhone, i social network iniziarono a prendere piede e la crisi economica del 2008 ribaltò l’industria della moda.

Ci volle però ancora tempo perché il sito si affermasse definitivamente, e fino al 2013 Amed ne fu il principale redattore. In quell’anno cambiò tutto, grazie all’investimento di aziende come LVMH e Net-a-Porter: ora Business of Fashion ha 75 dipendenti tra Londra, New York e Shanghai, più di un milione di visitatori unici al mese e 870mila followers su Instagram. Sei giorni su sette invia una newsletter a mezzo milione di persone, che per i due terzi hanno meno di 34 anni: stilisti, modelle, giornalisti, appassionati di moda e influencer. Propone articoli, notizie e analisi scritti dalla redazione insieme al meglio di quello che hanno pubblicato i giornali internazionali. Nel frattempo, grazie ai tantissimi contatti di Amed, quando nella moda succede qualcosa di grosso è quasi sempre BoF a darne la notizia: come quando Kate Moss fondò la sua agenzia di modelle o la stilista Phoebe Philo lasciò l’azienda Céline. Nel 2017, per il suo lavoro nella moda, Amed ha ricevuto l’Ordine dell’Impero Britannico, la più importante onorificenza del Regno Unito.

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Nel frattempo BoF si è ramificata ed è diventata una piattaforma che offre molteplici servizi: corsi di moda online tenuti da esperti del settore; inserti lavorativi offerti dalle aziende a pagamento, eventi, e la pubblicazione di una rivista bimestrale infarcita di annunci pubblicitari. Sono tutti una fonte di introiti ma anche un modo per essere competitivi ai massimi livelli in ogni aspetto del sistema moda. Amed sottolinea che «i nostri eventi competono con quelli di TED; le nostre offerte di lavoro con quelle di LinkedIn; i nostri corsi con quelli delle scuole di economia e di moda; i nostri articoli con quelli di tutti, da Women’s Wear Daily al New York Times all’Economist, oltre a Instagram e Facebook. Viviamo nell’economia dell’attenzione. Ogni giorno c’è poco tempo, e un patrimonio di spazio limitato sul telefono di qualcuno. Per questo io penso che non ci sia un unico rivale».

Una delle principali entrate di BoF è, dal 2016, il sistema di abbonamenti necessario per leggere tutti i contenuti: costa 216 euro all’anno, oppure 22,50 euro al mese. È una decisione innovativa ma probabilmente necessaria nel mondo della moda, dove le riviste si finanziano soprattutto grazie alla pubblicità arrivata dalle aziende di cui scrivono. Fondare buona parte delle entrate sugli abbonati anziché sulla pubblicità è un modo per restare indipendenti e garantire un servizio ai lettori: «Se una grande azienda si arrabbia con una rivista di moda per qualcosa, chiama e dice “Cancelliamo 50 pagine di pubblicità”. Succede davvero, ed è un grosso problema. Se un iscritto si arrabbia per qualcosa che abbiamo scritto, restiamo comunque un servizio per una comunità più vasta, a noi non cambia molto. Noi rendiamo conto alla nostra comunità».