Com’è “Roma”, il film che ha vinto a Venezia

È girato in bianco e nero, è ambientato a Città del Messico negli anni Settanta e l'ha diretto Alfonso Cuarón, il regista di "Gravity"

(Netflix)
(Netflix)

Ieri sera il film Roma, diretto dal regista messicano Alfonso Cuarón, ha vinto il Leone d’oro al festival del cinema di Venezia. È un film drammatico ispirato in parte alla vita del regista, cresciuto a Roma, un quartiere di Città del Messico, negli anni Settanta. Cuarón è stato premiato dal presidente di giuria Guillermo del Toro: i due sono si conoscono da anni e, insieme al regista Alejandro González Iñárritu, sono noti come i Three Amigos (così, con il numero in inglese e la parola in spagnolo: perché sono messicani che hanno fatto successo a Hollywood). Prima di annunciare il nome di Cuarón, del Toro ha detto: «Vediamo se riesco a pronunciare bene il nome».

Roma è girato tutto in bianco e nero, così come The Woman Who Left: il film di quattro ore, con lunghe inquadrature fisse, che vinse il Leone d’oro due anni fa. Roma invece dura solo 135 minuti e ha prospettive commerciali molto maggiori di The Woman Who Left: è distribuito da Netflix, che da dicembre lo distribuirà in alcuni cinema e lo renderà visibile online, e se ne parla già come di uno dei film che potrebbero giocarsela agli Oscar. Oltre a esserne regista, Cuarón ne è anche sceneggiatore, co-produttore, co-montatore e co-direttore della fotografia. I personaggi del film parlano spagnolo e mixteco, la lingua di un popolo indigeno mesoamericano.

Il filmspiega Netflix, «racconta la storia di Cleo (Yalitza Aparicio), giovane domestica di una famiglia che vive a Città del Messico nel quartiere borghese Roma» e «Cuarón prende ispirazione dalla propria infanzia per creare un ritratto intenso ed emozionante delle difficoltà familiari e delle gerarchie sociali durante i disordini politici negli anni Settanta». Il sito del Festival parla del film come di una «ode al matriarcato» e di un «vivido ritratto dei conflitti interni e della gerarchia sociale al tempo dei disordini politici».

È quasi impossibile mettere d’accordo due critici di cinema; figuratevi tutti quelli che hanno visto i film in concorso a Venezia. Ma in genere Roma è piaciuto, e già all’inizio del festival era considerato favorito per la vittoria. Il bianco e nero del film è stato molto apprezzato, e definito luminoso, radiante o risplendente. Sono stati molto elogiati anche altri aspetti tecnici come la fotografia e i movimenti di macchina – come spesso accade con i film di Cuarón – e l’interpretazione che è piaciuta di più è stata quella di Yalitza Aparicio, attrice mixteca al suo primo film. Alcuni critici hanno però trovato il film troppo tecnico per essere in grado di emozionare davvero. Come ha sintetizzato Federico Pontiggia, c’è «l’abituale perizia tecnica» di Cuarón, ma Roma «è un film più bello a guardarsi che bello da vedere».

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Eric Kohn ha invece spiegato su IndieWire che, dal punto di vista del racconto, è il film più sperimentale della carriera di Cuarón (il cui ultimo film è stato Gravity, grazie al quale ha vinto l’Oscar per la Miglior regia). Kohn ha scritto che il film è intimo e che alcune scene sono solo apparentemente semplici, mentre in realtà si rivelano diverse da quello che sembrano. Su Repubblica, Emiliano Morreale ha scritto: «Il presupposto alla base di Roma è in fondo giusto: perché le storie degli umili e degli ultimi dovrebbero essere mostrate per forza con un realismo paradocumentario? Alfonso Cuarón, regista di film diversissimi, da Y tu mamá también a un Harry Potter, per il suo dramma sociale in cui torna al natio Messico, sceglie un luccicante bianco e nero, inquadrature e movimenti di macchina costruitissimi».

Del suo film, Cuarón ha detto:

Ci sono periodi nella storia che lasciano cicatrici nelle società, e momenti nella vita che ci trasformano come individui. Tempo e spazio ci limitano, ma allo stesso tempo definiscono chi siamo, creando inspiegabili legami con altre persone, che passano con noi per gli stessi luoghi nello stesso momento. Roma è il tentativo di catturare il ricordo di avvenimenti che ho vissuto quasi cinquant’anni fa. È un’esplorazione della gerarchia sociale del Messico, paese in cui classe ed etnia sono stati finora intrecciati in modo perverso. Soprattutto, è un ritratto intimo delle donne che mi hanno cresciuto, in riconoscimento al fatto che l’amore è un mistero che trascende spazio, memoria e tempo.