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  • Mercoledì 11 luglio 2018

Come catturare l’attenzione del lettore

Da un saggio su come scrivere saggi contenuto nel nuovo libro dello svedese Fredrik Sjöberg, quello di "L'arte di collezionare mosche"

L'attrice Gloria Swanson nel giardino della sua casa a Nizza, nel 1956
(David Wharry/BIPs/Getty Images)
L'attrice Gloria Swanson nel giardino della sua casa a Nizza, nel 1956 (David Wharry/BIPs/Getty Images)

Perché ci ostiniamo è il nuovo libro dello scrittore svedese Fredrik Sjöberg, che forse avete sentito nominare come autore di L’arte di collezionare mosche, il libro che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo: è stato tradotto in 23 paesi e in Italia, pubblicato da Iperborea, ha venduto 14 mila copie, facendo guadagnare a Sjöberg una nicchia di ammiratori. Anche Perché ci ostiniamo, uscito sempre per Iperborea nella traduzione di Andrea Berardini e Fulvio Ferrari, rispecchia l’eccentricità e le passioni dell’autore, che è insieme giornalista culturale, entomologo e grande collezionista (la sua collezione di mosche sirfidi, di cui è uno dei maggiori esperti al mondo, è stata esposta alla Biennale di Venezia nel 2009). Il libro è una raccolta di nove saggi attorno a storie dimenticate e straordinarie, che iniziano spesso da un aneddoto e che di divagazione in divagazione ne infilano molti altri, raccontati con tono leggero, ironico e finemente provocatorio. Dentro ci sono per esempio l’incontro di Lenin con la famosa ambientalista svedese Anna Lindhagen, la battuta di caccia del presidente statunitense Theodore Roosevelt da cui nacque l’orsacchiotto “Teddy Bear” e la famosa risposta del generale di Napoleone Pierre Cambronne dopo la battaglia di Waterloo (rispolverata da un giornale belga per i Mondiali di calcio).

Quello che segue è l’inizio di “Sull’arte di scrivere saggi”, dove osservazioni assennate e autoironiche si mescolano a barili d’oro, pirati e vascelli affondati col loro bottino. Di Sjöberg potete leggere anche Il re dell’uvetta e L’arte della fuga.

***

Parliamo per un momento di soldi. Tanti soldi. Oro. In barili! Mille, a essere precisi. L’unica cosa di cui, così su due piedi, non sono del tutto sicuro è quanto fossero grandi, questi barili, che diametro e profondità avessero, ma possiamo anche lasciar perdere. Un barile è un barile e mille sono parecchi, e all’inizio del Settecento, quando ha luogo questa storia, si trattava di un’unità di misura diffusa e standardizzata, nota a tutti. Un barile di grano durava un inverno, circa, e l’oro era, allora come adesso, una tentazione irresistibile per i poveri.
E di povertà ce n’era parecchia in Svezia, in quel maledetto 1718. Ma prima di approfondire l’argomento, dovrei forse accennare a quello che al momento è il mio vero obiettivo, cioè dire qualcosa sull’arte di scrivere saggi. Non è semplice. Certo, scriverli non è impossibile, ma spiegare cosa sia di preciso un saggio si è rivelato, negli ultimi cinquecento anni, un bel grattacapo. Ma lasciate che ci provi lo stesso. Per esempio, immagino che si possa tracciare un confine piuttosto netto tra il saggio e la dissertazione. E altrettanto credo che ce la possiamo cavare nella distinzione dalla novella. Il giornalismo nelle sue varie forme può probabilmente essere spazzato da parte in una manata, e pensandoci meglio non dovrebbe essere nemmeno impossibile trovare una linea di demarcazione rispetto ai vari tipi di prosa breve che possono passare per schizzi autobiografici, pamphlet polemici e altro in quella direzione. Gli ibridi sono di certo una legione, e il concetto stesso di saggio è talmente fumoso che la forma, negli ultimi anni, si è trasformata in una specie di refugium peccatorum per quegli scrittori che non sanno troppo bene cosa stiano facendo o perché, ma osservazioni di questo genere non devono fermarci nella nostra ricerca. È il pensiero che conta. E poi stavamo parlando di soldi.

L’oro ovviamente non è che un espediente strategico, grazie al quale possiamo immediatamente individuare due fondamenti dell’arte saggistica. Uno: il lettore ha tanto tempo. Due: non si può essere sicuri che sia interessato all’argomento. La prima delle due precondizioni è a conti fatti piuttosto semplice, in quanto lo scrittore di saggi può, e deve, prendersela comoda e cercare un ritmo di lavoro più rilassato di quello che, per esempio, può di solito permettersi un giornalista. Con ogni probabilità il suo lettore se ne starà seduto in perfetta calma, per esempio su una corriera in autostrada, senza il desiderio o la possibilità di lasciarsi distrarre dalla tivù o da qualche compagno di viaggio in vena di chiacchiere. Abbiamo tutto il tempo del mondo, allacciamo le cinture. Il che naturalmente è una tentazione insidiosa che ci conduce alla premessa numero due, quella che riguarda l’interesse, che, oserei dire, è tra le cause più comuni che portano un saggio all’incagliamento e al asco. L’autore si illude che il lettore sia interessato all’argomento. Ovviamente a volte è così, ma credetemi, di norma il nostro viaggiatore è, nella migliore delle ipotesi, solo relativamente desideroso di imparare qualcosa di nuovo, di qualsiasi cosa si tratti, e perciò è necessaria, almeno all’inizio, tutta una serie di trucchi grossolani che solletichino i più bassi istinti umani. I soldi funzionano alla perfezione. Lì possiamo aspettarci con certezza un interesse spontaneo della migliore qualità. Cinque righe, forse dieci, non occorre di più. A quel punto il lettore ha abboccato.
Il mio consiglio, se qualcuno me lo chiede, è che l’autore abbia sempre in mente di rivolgersi a un lettore colto, ma disinteressato. Per quel che ci riguarda, possiamo tranquillamente considerare il nostro argomento avvincente e appassionante al massimo, ma se si commette la sciocchezza di scambiare la propria passione per quella del lettore, si va spesso ad atterrare male, da soli. Mi spiace molto, ma a parte i soldi, il sesso e le disavventure dei conoscenti, ci sono pochi argomenti in grado di destare un’attenzione incondizionata. E un saggio deve in primo luogo parlare di qualcosa, avere un contenuto fattuale rilevante che, quando la corriera si ferma a Norrköping, abbia fornito al lettore delle conoscenze, magari indelebili, su qualche argomento più o meno inatteso.

C’è un’intera serie di differenze tra il saggio e la dissertazione, ma credo che questa sia la più importante, forse insieme al grado di confidenza con cui ci si rivolge al lettore. Le dissertazioni si scrivono per gli specialisti e gli studenti, a volte per entrambi; essendo questi lettori generalmente ben disposti e interessati fin dal principio, i testi possono essere tanto secchi da rasentare l’autocombustione. Perciò si può corredarli di elenchi bibliografici, note a piè di pagina e altre simili decorazioni accademiche, senza rovinare l’umore di nessuno, piuttosto il contrario. Sottotitoli lunghi come porri sono ugualmente quasi un obbligo. Ma provi, chi osa, a crivellare un potenziale saggio con note e sottotitoli di paragrafi: non funziona.
Prima qualche parola sulla polemica. Che voglio davvero raccomandare. Naturalmente, un saggista non può ricorrere alla violenza di intrattenimento intellettuale che si usa nelle pagine dei commenti sui quotidiani. Le risse da bar di rado danno origine a bei saggi, ma la presentazione può senz’altro risultare alleggerita, e arricchita di una specie di fonte di energia interna, se le provocazioni vengono dosate nelle debite proporzioni, possibilmente in forma di attacchi personali appena camuffati. Insomma, è un bene che l’autore si scagli contro qualcosa, qualsiasi cosa – per esempio, contro un furfante noto a tutti, ai vertici della gerarchia del dicastero degli esteri, che si arricchisce con ambigue speculazioni in terre lontane, anche se per il nero tramite fluttuante dell’oro. Tacciare direttamente l’individuo in questione di essere un cialtrone non funziona, ma ci sono altre vie, più indirette.
Dopodiché possiamo passare a costruire l’impalcatura di informazioni su cui il saggio dovrà sostenersi. Ci sono molti modi, e una varietà infinita di argomenti adatti; vorrei però sottolineare quanto sia vantaggioso immaginare n dall’inizio il proprio compito come se si trattasse di un’impegnativa conversazione a tavola in una cena elegante. Sapete cosa intendo. Si è lì seduti a piluccare il cocktail di scampi (siamo ancora agli antipasti) e si è tormentati dal sospetto che la signora alla propria destra sia un po’ annoiata. Forse è già partita in quarta, come per prendermi le misure, dicendo qualcosa di profondo sui nuovi filosofi francesi. A quel punto è finita. E se non riesco a tenere i nervi saldi, subito mi sento raccontare di come l’anno prima, alla fiera del libro di Göteborg, ho condiviso un taxi con Michel Onfray – che è la cosa più stupida che si possa dire, perché il sottotesto dell’aneddoto è, in primo luogo, che le proprie conoscenze in campo filosofico si fermano lì e, in secondo luogo, che si ha una certa tendenza alla millanteria, cosa poco appropriata, specialmente all’antipasto.
No, l’attacco è la miglior difesa.
Si divora il cocktail di scampi, si prende un bel sorso di vino, ci si china leggermente verso la compagna di tavolo e si domanda:
«Conosce l’affaire Madagascar?»
«Mmh, no.»
Nel novantanove percento dei casi risponderà così, perché anche la più poderosa istruzione ha i suoi limiti, e a quel punto la strada è spianata.
«Be’, andò così», si continua allora, «che poco dopo il ritorno di Carlo XII dalla Turchia, mentre il re stava intraprendendo la fatale campagna di Norvegia, nella fitta tenebra che all’epoca avvolgeva le finanze del regno, si intravide di colpo un raggio di luce. Probabilmente fu il barone Görtz a fiutare per primo la traccia, ma anche il re nella sua alta persona era sulla buona strada, e fu proprio lui e non altri a dare l’avvio alla vicenda. Era una bella giornata a Strömstad, il 24 giugno del 1718.»

«Görtz? Quel mascalzone! Non l’hanno decapitato?»
Questo è il segnale di via libera; proprio nel momento in cui la storia sta per cominciare, il destinatario conferma di avere, come quasi tutti quelli che leggono saggi, una certa istruzione. E come spesso accade, è una possibilità stimolante, con un rovescio della medaglia un po’ meno felice. Le conoscenze del pubblico nel campo della cultura e della scienza sono un dono, certo attraente, ma costringono anche l’autore ad attenersi alla verità, o almeno a non allontanarsene eccessivamente. Menzogne troppo esagerate vengono di solito scoperte. Un buon saggio può senz’altro rientrare nella grande letteratura, ma, a differenza per esempio di una novella, non può essere basato sull’invenzione. Che la realtà spesso superi la fantasia è ovviamente una consolazione.

(© Iperborea 2018)