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  • Sabato 23 giugno 2018

La gran storia dello studioso americano che era stato dato per morto e invece è vivo

John Kidd divenne famoso per le sue accuse alla prima edizione critica dell'Ulisse di Joyce, poi sparì: un giornalista ha scoperto cosa gli è successo

Il titolo dell'articolo sullo studioso di Joyce John Kidd sul New York Times Magazine; la fotografia è di Lalo de Almeida
Il titolo dell'articolo sullo studioso di Joyce John Kidd sul New York Times Magazine; la fotografia è di Lalo de Almeida

Sull’ultimo numero del New York Times Magazine c’è un lungo articolo intitolato “Lo strano caso dello studioso di Joyce scomparso”. Racconta la storia di John Kidd, un eccentrico ricercatore che a metà degli anni Ottanta ottenne una certa fama, non solo tra gli specialisti, legata all’Ulisse di James Joyce, uno dei romanzi più significativi e complessi del Novecento. Nel 2002 Kidd fu descritto dal Boston Globe come un fallito che parlava con i piccioni dopo aver perso il suo lavoro all’Università di Boston; poco dopo «sparì», nel senso che nessuno in città lo vide più e divenne impossibile sapere cosa gli fosse successo.

L’autore dell’articolo del New York Times Magazine, il giornalista e autore radiofonico Jack Hitt, aveva contattato Kidd per lavoro molto tempo prima del 2002 e negli ultimi dieci anni ha più volte cercato di scoprire cosa gli fosse successo: quest’anno finalmente ci è riuscito e lo ha raccontato.

Per capire perché John Kidd divenne noto nel mondo dello studio della letteratura inglese, al punto da essere l’oggetto di un articolo del non ancora premio Pulitzer David Remnick sul Washington Post, è necessario spiegare alcune cose sulla storia editoriale dell’Ulisse. Joyce iniziò a scriverlo nel 1915 e ci mise sette anni a finirlo. Dal 1918 al 1920 tredici capitoli furono pubblicati sulla rivista americana The Little Review: la pubblicazione a puntate però fu interrotta per una querela per oscenità. Per via di questa accusa, quando il romanzo fu ultimato, nel 1922, non potè uscire negli Stati Uniti – nemmeno nel Regno Unito e in Irlanda, il paese di Joyce – e fu pubblicato solo in Francia. Il problema fu che a mettere insieme per la stampa il manoscritto del romanzo, composto da quaderni, fogli volanti e disordinate correzioni dei capitoli già pubblicati, furono compositori tipografici francesi che non sapevano l’inglese: la prima edizione, che Joyce non rivide prima della stampa, era piena di errori. La seconda edizione, pirata e illegale, che fu diffusa negli Stati Uniti, era basata sulla prima e conteneva ancora più errori.

Per questo negli anni gli studiosi di Joyce hanno sempre parlato della necessità di realizzare un’edizione corretta del romanzo, rivedendo i manoscritti, i dattiloscritti e le bozze di Joyce. Non era un’impresa semplice, considerando che l’Ulisse è fatto di più di 265mila parole (l’edizione italiana è lunga quasi mille pagine) e contiene molte sperimentazioni linguistiche. La prima e finora unica edizione critica uscì nel 1984: si intitola Ulysses: The Corrected Text e fu curata dallo studioso tedesco Hans Walter Gabler – la Germania è tradizionalmente un paese di filologi – che disse di aver corretto circa cinquemila errori. Se ne parlò molto in primo luogo perché fu un grosso lavoro, da tempo atteso, poi perché fu aspramente criticato da un allora sconosciuto studioso autodidatta americano di 32 anni che aveva letto l’Ulisse per la prima volta da adolescente mettendoci tre giorni: era John Kidd.

«Direi che quattromila delle modifiche di Gabler non sono necessarie», disse Kidd a David Remnick nel 1985. Per tutta la seconda metà degli anni Ottanta, a più riprese, Kidd criticò il lavoro di Gabler, prima dal vivo, poi scrivendo. In un articolo pubblicato sulla New York Review of Books nel giugno del 1988, per esempio, Kidd se la prese con Gabler perché a circa un terzo dell’Ulisse, in una lista di nomi di ciclisti, aveva corretto il nome «H. Thrift» con «H. Shrift»: ma nella Dublino del 1904, anno in cui è ambientato il romanzo, un uomo chiamato Harry Thrift partecipò effettivamente a una corsa in bicicletta. Molte altre correzioni contestate da Kidd riguardano la dizione di certe parole, oppure la disposizione di certi segni di punteggiatura. In generale Kidd criticò Gabler per il metodo che utilizzò per le correzioni, per non aver consultato alcuni archivi e per aver fatto modifiche non necessarie: disse anche che l’Ulisse di Gabler aveva più errori di quello del 1922.

A chi non si occupa di studio della letteratura questa e altre critiche che Kidd e dopo di lui altri studiosi fecero alle correzioni di Gabler possono sembrare poca cosa, prese singolarmente, e sicuramente Kidd dimostrò una tenace ossessione per i particolari con le sue obiezioni spesso aggressive. Ma l’obiettivo di un’edizione critica è proprio sistemare tante piccole cose, che nel caso dell’Ulisse possono essere anche molto importanti per gli studiosi dato che per Joyce i singoli particolari del romanzo erano molto importanti. Bastano due citazioni dello stesso Joyce per capirlo: una volta disse che se mai Dublino fosse stata cancellata dalla Terra avrebbe potuto essere ricostruita dal romanzo, visto com’era pieno di dettagli; un’altra è che aveva messo così tanti enigmi e rompicapi nell’Ulisse che avrebbero tenuto occupati gli studiosi per secoli nel tentativo di decifrarli.

Detto questo, un paio delle correzioni con cui Kidd se la prese hanno un peso particolare, spiega Hitt nel suo articolo. La prima riguarda le parti in cui il personaggio di Stephen Dedalus si chiede quale sia la «parola nota a tutti gli uomini». Per quasi un secolo lettori e studiosi si sono interrogati su quale fosse questa parola: forse “morte”, forse “amore”, forse qualcos’altro. Gabler trovò un passaggio in uno dei manoscritti di Joyce in cui la parola veniva svelata, e presunse che un tipografo si fosse sbagliato a non riportare quel passaggio: per questo nell’edizione di Gabler, nel nono capitolo, c’è la frase «Love, yes. Word known to all men», «L’amore, sì. La parola nota a tutti gli uomini». Nel suo articolo Hitt descrivendo questa aggiunta come una forzatura, la paragona a qualcuno che avesse voluto aggiungere «e la risposta è essere» all’«essere o non essere, questo è il problema» dell’Amleto di Shakespeare.

L’altra grossa cosa cambiata da Gabler invece è la presenza di un punto più grosso del normale alla fine del penultimo capitolo, l’ultimo in cui c’è il protagonista dell’Ulisse, Leopold Bloom. Joyce disse ai tipografi francesi che stamparono la prima edizione del romanzo di farlo molto visibile, e negli anni gli studiosi si sono molto interrogati su cosa simboleggiasse: secondo qualcuno è solo un punto più grosso nel normale (arriva in fondo a una sequenza di domande e risposte e potrebbe essere un modo di dire «zitto!»), secondo altri è la Terra vista da dio (che secondo questa interpretazione è il narratore del capitolo), o ancora un buco, la bocca di Bloom che sbadiglia, una porta, un uovo o l’ano di Molly Bloom, la moglie del protagonista. Il fatto è che nell’edizione critica di Gabler il punto è appena più grande di un punto normale, anche se, ha spiegato lo stesso Gabler a Hitt, «è molto nero».

Nell’edizione italiana negli Oscar Mondadori, tradotta da Giulio de Angelis e adattata all’edizione di Gabler, la frase sull’amore c’è e il punto non c’è proprio, né piccolo né grande. Anche in quella di Newton Compton tradotta e curata da Enrico Terrinoni il punto non c’è, ma non c’è nemmeno la frase sull’amore: Terrinoni, che insegna letteratura inglese all’Università per Stranieri di Perugia, condivide infatti alcune delle critiche fatte all’edizione di Gabler. Gianni Celati, che ha tradotto l’Ulisse per Einaudi, ha fatto le stesse scelte e non si è basato sull’edizione di Gabler per la sua traduzione.

Nel tempo molti studiosi e critici presero le parti di Kidd – lo fece anche lo scrittore John Updike – e poi alla fine del 1988 fu pubblicato un articolo che screditò ulteriormente il lavoro di Gabler: lo scrisse lo studioso Charles Rossman e fu pubblicato a sua volta sulla New York Review of Books. Rivelò che Stephen Joyce, il bisnipote di James e il detentore dei diritti d’autore sulle sue opere, aveva autorizzato l’edizione critica di Gabler affinché contenesse sufficienti novità da far posticipare la scadenza dei diritti d’autore sull’Ulisse, che all’epoca in molti paesi europei duravano cinquant’anni dalla morte dell’autore (ora settanta) e quindi sarebbero dovuti scadere nel 1992. Il bisnipote avrebbe molto beneficiato dell’allungamento della durata dei diritti, dato che all’epoca l’Ulisse vendeva circa 100mila copie ogni anno.

La scoperta di Rossman rese ancora più famoso Kidd, a cui l’Università di Boston offrì la direzione del James Joyce Research Center allo scopo di realizzare una nuova edizione critica dell’Ulisse. Per pubblicare il libro la casa editrice W.W. Norton offrì a Kidd un anticipo da 350mila dollari, una somma simile a quelle che ottengono solo i conclamati autori di bestseller. Si decise che il libro sarebbe stato pubblicato anche in una versione CD-ROM che avrebbe permesso di consultare note e contenuti aggiuntivi usando i link. Cominciarono a passare gli anni, però, e l’edizione critica non arrivava: molti altri studiosi di Joyce iniziarono a criticare Kidd per aver tanto parlato della sua versione dell’Ulisse e di non averla ancora realizzata.

Ancora nel 1997 Kidd diceva che la sua edizione critica sarebbe stata pubblicata a breve, grazie al fatto che nel 1998 sarebbero scaduti i diritti d’autore sull’Ulisse negli Stati Uniti e questo avrebbe permesso di pubblicarla senza aver bisogno del permesso di Stephen Joyce. Ma alla fine l’edizione critica non è mai stata terminata: Julia Reidhead, una delle editor di W.W. Norton con cui Kidd collaborava, ha spiegato a Jack Hitt che successivi ritardi nelle revisioni – oltre ad alcune complicanze sulla faccenda dei diritti d’autore e con i rapporti con Stephen Joyce – spinsero la casa editrice a cancellare il progetto.

Nel 2002 il Boston Globe descrisse Kidd come un uomo senza soldi e senza un lavoro, che passava le giornate a parlare con i piccioni. Sono le ultime informazioni su di lui pubblicate da un giornale prima dell’articolo di Jack Hitt.

Nel frattempo l’edizione critica di Gabler, sebbene molto discussa, è diventata la più diffusa nelle librerie di Stati Uniti, Regno Unito e Irlanda, così come in quelle del resto del mondo, nelle diverse traduzioni: molte, come quella italiana, non hanno nessun punto alla fine del penultimo capitolo. Robert Spoo, esperto di Joyce ed ex redattore del James Joyce Quarterly, ha spiegato a Hitt: «Pian piano gli studiosi sono tornati a rivolgersi all’edizione di Gabler. Non pubblicando la propria, Kidd non ha mai finito la sua contestazione di Gabler. (…) Gli studiosi se ne sono fatti una ragione».

Per scoprire cosa fosse successo a Kidd, Hitt ha cominciato contattando tutti i ricoveri per senzatetto di Brookline, un comune alla periferia di Boston, senza trovare niente. Poi scrisse a tutti gli ex colleghi di Kidd all’Università di Boston. John Matthews, uno studioso di William Faulkner, gli disse di aver sentito dire che era morto. Hitt trovò la stessa informazione in moltissime sezioni di commenti di siti e blog dedicati a Joyce o a questioni letterarie in generale. Gliela confermò anche lo studioso rumeno Mircea Mihaies, che in un’intervista in occasione dell’uscita di un suo saggio sulla storia dell’Ulisse aveva detto che Kidd «morì in squallide circostanze nel 2010, sepolto dai debiti, detestato, insultato, solo, abbandonato da tutti tranne che dai piccioni del campus della Boston University».

Quella della morte in solitudine e povertà è una storia simile a molte di altri scrittori, artisti e personalità geniali: solo che nel caso di Kidd non era confermata da nessun necrologio. L’unica cosa accurata che riuscì a trovare, facendo delle domande ai professori della Boston University, fu che Kidd non era molto amato dai suoi colleghi e nonostante fossero passati molti anni dalla sua sparizione «le vecchie invidie e i risentimenti erano sopravvissuti intatti»: qualcuno lo definì «uno studioso che non dimostrò mai la sua competenza», qualcun altro «un insegnante negligente e facile all’insulto».

Oltre alle voci sulla sua morte, Hitt ne raccolse altre ancora più strane: il professore Michael Prince gli disse di aver sentito dire che Kidd era emigrato in Sud America e nel farlo menzionò il critico e scrittore Keith Botsford, che sapeva essersi trasferito in Costa Rica. Mentre Hitt cercava un modo per contattare Botsford, trovò tra i blog dedicati a Joyce vari commenti scritti da un uomo di nome Miguel, un appassionato di nudismo residente a Rio de Janeiro, in Brasile: in uno di questi commenti Miguel diceva di essere stato a una festa a cui c’era anche Kidd.

Il fatto che Miguel fosse di Rio ricordò a Hitt una cosa che gli aveva detto la professoressa dell’Università di Bucarest Lidia Vianu: anche lei in passato aveva cercato di ritrovare Kidd e qualcuno le aveva dato un suo indirizzo email brasiliano. Vianu non aveva avuto successo nella sua ricerca, perché nessuno aveva risposto all’email inviata a quell’indirizzo, ma lo passò comunque a Hitt, che decise di mandare un messaggio a sua volta: scrisse a Kidd ricordando di quando si erano sentiti in passato e gli disse che forse avrebbe fatto un viaggio a Rio.

Hitt mandò l’email una domenica pomeriggio e il lunedì mattina trovò una risposta: Kidd (vivo) diceva di ricordarsi di lui e gli chiedeva quando sarebbe stato a Rio. Hitt ci andò e passò un po’ di tempo con lui. Lo descrive così:

«John Kidd, che ha 65 anni, è più alto di un metro e ottanta e ha la forma fisica di un buongustaio. Non ha più gli ordinati capelli corti e biondi di trent’anni fa. Ora ha una chioma bianca come la neve e lunga fino a metà schiena, tipo Gandalf. È un appassionato di camicie hawaiane larghe, infradito e calzoni corti».

Kidd ha raccontato a Hitt cosa gli è successo negli ultimi vent’anni e cosa sta facendo ora. Prima di tutto non è mai stato a corto di denaro: quella riportata dal Boston Globe nel 2002 sarebbe un’informazione falsa e Kidd lo ha dimostrato a Hitt facendogli vedere un estratto conto dell’epoca. Lasciò il suo lavoro all’Università di Boston dopo che il quotidiano della città cominciò a dedicarsi al suo carattere, al suo rapporto con gli studenti e ai suoi scontri con gli addetti alla sicurezza del campus a proposito dei piccioni, a cui dava da mangiare. Lasciò gli Stati Uniti per trasferirsi a Pechino, dove si mise a studiare Il sogno della camera rossa, un lungo romanzo cinese di fine Settecento che per la sua mole e la sua struttura in un qualche senso fa parte della stessa famiglia di libri dell’Ulisse.

Poi si trasferì in Brasile, dove imparò il portoghese e si mise a studiare un romanzo ottocentesco brasiliano, La schiava Isaura, noto soprattutto per la telenovela che ne fu tratta alla fine degli anni Settanta: è il “grande libro” della letteratura brasiliana, come lo è Il sogno della camera rossa per quella cinese, e come lo sono I promessi sposi e la Commedia di Dante per quella italiana.

Oggi Kidd lavora all’Accademia delle Lettere del Brasile e «la sua ossessione di capire il grande libro di ogni cultura è ancora la cosa che lo fa alzare al mattino», per il «senso di totalità» che questo tipo di libri emana per lui. Da alcuni anni sta lavorando a una traduzione in inglese di La schiava Isaura che è anche un vocabolario di inglese: il libro che sta scrivendo – già lungo quasi il doppio dell’Ulisse– è diviso in una prima parte che è la traduzione del romanzo e in una seconda che contiene, per ogni parola usata nella traduzione, una parola a essa legata per ragioni lessicografiche. In pratica la seconda parte è un dizionario quasi completo, organizzato non in ordine alfabetico ma secondo un criterio basato sull’ordine delle parole, di uno dei più importanti romanzi brasiliani. Una precisazione per chi si stesse soffermando sull’idea dietro questo progetto a dir poco maniacale e apparentemente uscito da un racconto di Jorge Luis Borges: ogni parola della traduzione viene usata una sola volta per “generare” una parola del “dizionario”.

Molti studiosi dell’arte popolare e degli autodidatti pensano che gli artisti autodidatti che realizzano opere d’arte molto affollate con l’ambizione di dare una forma di completezza su un certo tema (come questo giardino o questo quadro) non lo facciano solo per una scelta di gusto, ma anche per una forma di patologia mentale che li accomuna. I lavori di questi artisti sarebbero la manifestazione di un’ossessione a riempire ciò che è vuoto, l’horror vacui in latino. Secondo Hitt è questa ossessione a spingere Kidd ad avvicinarsi ai romanzi nel suo modo particolare, una ricerca di completezza.