Gli herpes virus c’entrano con l’Alzheimer?

Una ricerca ha trovato nuovi indizi su una teoria dibattuta da tempo su cosa nel nostro cervello causi forme di demenza degenerativa

(AP Photo/Evan Vucci, File)
(AP Photo/Evan Vucci, File)

Due herpes virus piuttosto comuni potrebbero avere un ruolo nello sviluppo dell’Alzheimer, la malattia degenerativa che porta a una progressiva demenza e alla difficoltà di ricordare gli eventi. L’ipotesi è stata sollevata da un nuovo studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Neuron e destinato a far discutere neurologi e ricercatori, che già in passato avevano notato un possibile nesso tra virus e Alzheimer. La scoperta non è risolutiva per trattare la malattia, ma secondo gli autori dello studio potrebbe aiutare a comprendere meglio i suoi meccanismi e in futuro a rallentarne la progressione.

La ricerca è stata coordinata da Joel Dudley, docente di genetica presso la Icahn School of Medicine at Mt. Sinai di New York (Stati Uniti) e la scoperta è avvenuta un po’ per caso. Insieme ai suoi colleghi, Dudley aveva avviato un confronto tra campioni genetici prelevati da cervelli sani e da pazienti con Alzheimer per trovare eventuali differenze, sulle quali intervenire con farmaci appositi per sopprimere o per lo meno rallentare la malattia. Nel farlo, i ricercatori hanno notato una maggiore presenza di virus nei tessuti prelevati da chi aveva sofferto di Alzheimer in vita (la raccolta dei campioni era avvenuta dopo il decesso dei pazienti). In particolare, i livelli di herpes virus HHV-6 e HHV-7 erano doppi rispetto ai tessuti prelevati dai cervelli sani. Ulteriori approfondimenti, utilizzando una banca dati molto ampia con centinaia di cervelli analizzati, hanno portato alle medesime osservazioni.

HHV-6 e HHV-7 sono comuni e possono causare malattie come la cosiddetta “sesta malattia”, il classico e riconoscibile sfogo cutaneo che si ha spesso da piccoli. Questi virus possono anche raggiungere il cervello e rimanere latenti per decenni, senza portare alla manifestazione di nuovi sintomi.

Dudley e colleghi hanno allora provato a comprendere l’eventuale ruolo di questi virus nello sviluppo di una malattia come l’Alzheimer. Per farlo, si sono concentrati sui geni dei virus e su quelli presenti nelle cellule del cervello, per capire se vi siano meccanismi di comunicazione e interazione. Come ha spiegato Dudley: “Abbiamo provato a mappare il loro social network, se così vogliamo dire, per capire quali geni accettano l’amicizia dei virus e con chi parlano all’interno del cervello. In pratica, se i virus twittano, chi risponde ai loro tweet?”.

L’analisi di questa sorta di social network ha portato i ricercatori a scoprire che i geni degli herpes virus interagiscono di frequente con quelli che fanno aumentare il rischio di sviluppare l’Alzheimer. Al tempo stesso, però, si sono anche accorti che la presenza dei geni che aumentano il rischio di soffrire di Alzheimer rendono il cervello più vulnerabile alle infezioni da parte di HHV-6 e HHV-7. L’interazione è quindi più complicata di quanto si potesse immaginare e non è ancora possibile dire con certezza cosa causi cosa, un po’ come il proverbiale dilemma dell’uovo e della gallina.

Lo studio chiarisce inoltre che la presenza di questi virus nel cervello non è una causa sufficiente per portare all’Alzheimer. Dudley e colleghi non sono riusciti a spiegare quale sia la molla che fa attivare i virus dopo decenni di inattività, anche se sospettano che il loro risveglio sia dovuto ad alcuni cambiamenti nel funzionamento delle cellule cerebrali. Solo quando diventano attivi, i virus contribuiscono alla formazione delle placche amiloidi, i complessi formati da proteine e detriti di neuroni che sembrano essere associati allo sviluppo dell’Alzheimer. La presenza dei virus attivi innesca inoltre una risposta immunitaria, che potrebbe essere legata a sua volta alla malattia.

Essendo le placche la formazione più evidente nei cervelli dei pazienti con Alzheimer, per lungo tempo i ricercatori si sono dedicati allo studio di soluzioni per ridurle con principi attivi e farmaci di vario tipo. Alcuni di questi sistemi hanno funzionato, ma non hanno comunque dimostrato un miglioramento delle funzioni cerebrali o dato segnali di recupero nei pazienti.

Il filone delle ricerche che ipotizzano un ruolo dei virus nella malattia è molto ampio ed è da anni al centro di un grande dibattito tra i ricercatori, molti dei quali sono scettici e in attesa di risultati più concreti e convincenti. Il nuovo studio potrebbe portare alla sperimentazione di terapie innovative contro l’Alzheimer. Una, in fase di avvio, prevede l’impiego di farmaci antivirali nei pazienti con alti livelli di herpes virus e manifestazioni iniziali di Alzheimer. Un altro, molto più complesso e difficile da calibrare, comporta una inibizione del sistema immunitario delle cellule, in modo che non reagiscano ai virus indiziati di contribuire all’Alzheimer in modo che non ci sia un effetto “benzina sul fuoco”, come dice Dudley.

In Italia le persone affette da Alzheimer sono circa 600mila e le persone che soffrono di varie forme di demenza sono quasi 50 milioni in tutto il mondo. Per l’Alzheimer non c’è cura: alcuni farmaci sembrano essere in grado di rallentare parzialmente la malattia, ma non sono comunque risolutivi e non arrestano la degenerazione. I pazienti perdono progressivamente la capacità di ricordare e di riconoscere le persone a loro vicine, con sofferenze per familiari e amici. La nuova ricerca è un pezzetto di un puzzle molto complicato che riguarda uno degli organi più complessi, e per molto versi ancora misterioso, come il nostro cervello. Serviranno molti altri tasselli per risolvere il problema dell’Alzheimer.