Cosa c’è di sbagliato in questa foto?

Aveva vinto il Wildlife Photographer of the Year, ma è stata squalificata perché l'animale che si vede è impagliato: ma sono trucchi usati spesso, da tanti fotografi

The night raider
© Marcio Cabral - Wildlife Photographer of the Year/PA Wire/LaPresse
The night raider © Marcio Cabral - Wildlife Photographer of the Year/PA Wire/LaPresse

La scorsa settimana la fotografia The Night Raider di Marcio Cabral, premiata nella sezione “Animali nel loro ambiente naturale” al Wildlife Photographer of the Year, è stata squalificata dal concorso per il sospetto che il formichiere ritratto non fosse reale ma imbalsamato. La decisione è stata presa dopo molte segnalazioni dal Natural History Museum, il museo di Londra che organizza il concorso: l’animale impagliato sarebbe stato preso da un centro turistico del parco nazionale delle Ema, in Brasile, dove Cabral ha scattato la foto.

Cabral ha negato le accuse ma se risultassero vere non sarebbe il primo ad aver spacciato come autentico il ritratto di un animale selvaggio che non lo è. I concorsi fotografici, e in particolare il Wildlife Photographer of the Year, stanno molto attenti a scovare simili espedienti, scegliendo come giurati esperti di biologia e manipolazione delle immagini digitali, che però non sempre riescono a individuare i trucchi. Nel 2010 per esempio il Natural History Museum ritirò il premio del fotografo spagnolo José Luis Rodríguez sospettando che avesse assunto un mansueto lupo grigio da uno zoo di Madrid per fotografare una specie vista raramente in natura; Rodríguez, come Cabral, si è sempre detto innocente.

The night raider
© Marcio Cabral – Wildlife Photographer of the Year/PA Wire/LaPresse

Il Guardian ha preso spunto dall’episodio per raccontare che le foto naturalistiche sono spesso fasulle e ritoccate, con fotografi che anziché ritrarre animali selvatici ne usano di ammaestrati, incollano o congelano gli insetti nella posizione giusta o si servono di prede per attirare gli animali più vicino alla macchina fotografica.

Uno dei metodi più usati è rivolgersi alle imprese che allevano e addestrano animali selvatici per il cinema, i servizi fotografici e le pubblicità. Triple D fu fondata in Montana negli anni Settanta ed è una delle prime e più attrezzate aziende del genere; una sessione fotografica da 90 minuti costa tra i 100 e i 400 dollari, e mette a disposizione tigri siberiane, orsi grizzly, leopardi delle nevi, lupi, tutti ben nutriti ed esteticamente impeccabili. Le immagini di animali selvatici scattate o filmate in questo modo sono così comuni che hanno modificato il modo in cui le persone immaginano quegli animali. Alex Strachan, fotografo naturalista canadese, ha spiegato al Guardian che «posso mostrarti due immagini: un puma scheletrico che si nasconde in una scogliera spruzzata di neve, o uno di allevamento con qualche chilo in più e un bellissimo scintillante manto nella neve. Un purista vorrebbe vedere il puma selvaggio mentre prova a cavarsela, ma il 99 per cento delle persone preferirebbe la foto del grosso puma in salute».

Un altro espediente è servirsi di esche per attirare gli animali e scattare immagini da vicino, da un’angolatura predefinita e senza perdere troppo tempo. Laura Kaye, fotografa canadese specializzata in uccelli, ha raccontato che una volta ricevette una dritta su dove fotografare all’aperto gli allocchi di Lapponia; quando arrivò sul posto indicato trovò un gruppo di fotografi e qualcuno che gettava vicino a loro dei topi vivi per attirare gli allocchi. La pratica è discutibile, oltre che dal punto di vista deontologico, anche perché modifica il comportamento degli animali, che non dovrebbero abituarsi ad associare gli uomini al cibo.

Agli insetti piccoli, ai rettili e agli anfibi va ancora peggio. Bolt racconta che spesso i fotografi li infilano nel freezer per decine di minuti per rallentarne i movimenti, li incollano sulle ragnatele o in posizioni insolite. Nel 2015 divenne per esempio famosa la foto di una rana che cavalcava un coleottero: era presentata come scattata in natura e non composta, ma alcuni naturalisti osservarono che le rane sono animali notturni, quando l’immagine era diurna, e che la bocca aperta indicava la sofferenza dell’animale.

Trucchi meno crudeli sono ottenuti con i software per il photo-editing che permettono di ravvivare i colori, modificare gli sfondi, avvicinare animali fotografati separatamente; queste modifiche però sono più facili da scoprire risalendo ai file della foto, cosa a cui concorsi e riviste fanno più attenzione.

Questo sistema di falsificazione è favorito dalla pressione economica e dalla carenza di risorse, che spingono i fotografi a cercare lo scatto di maggiore effetto nel minor tempo possibile. «Tutti i fotografi professionisti sono in qualche modo colpevoli», ha detto al Guardian David Slater, il fotografo britannico diventato famoso per il selfie che un macaco si scattò con la sua macchina fotografica: fu al centro di un procedimento giudiziario che ha avuto un aggiornamento recente e, forse, definitivo. L’immagine fece il giro del mondo ma Slater non ne ricavò quasi nulla e finì a lavorare come dog-sitter per pagarsi le spese legali.

Una soluzione è abbandonare la pretesa di ritrarre gli animali in natura e farne ritratti dichiaratamente artistici, come fa per esempio David Yarrow: le sue fotografie in bianco e nero fatte con leoni ed elefanti ammaestrati sono vendute a un costo che va dagli ottomila ai 60 mila euro. Yarrow è anche convinto che la carriera di Cabral, l’autore della foto del formichiere imbalsamato, potrebbe avere una svolta positiva: «ora quella foto potrebbe valere di più come opera d’arte».