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  • Martedì 30 gennaio 2018

Si può insegnare a scrivere?

«Io direi, come prima risposta, che in senso stretto non ho mai conosciuto nessuno che sia nato scrittore» (Giuseppe Pontiggia)

“Scrivere di notte” è il nome di tre nuovi corsi serali della scuola di scrittura Belleville che inizieranno a febbraio: Scrittura, Editing, Giornalismo.
Il brano che pubblichiamo fa parte delle conversazioni sulla scrittura che Giuseppe Pontiggia tenne per RAI-Radio Due tra maggio e giugno 1994. Nel 2016 queste conversazioni – venticinque in tutto – sono state pubblicate da Belleville nel libro “Dentro la sera”. Nella prima conversazione, Pontiggia – che fu tra i pionieri dell’insegnamento della scrittura in Italia – s’interroga su una questione ancora oggi dibattuta: si può insegnare a scrivere?

“Ecco, sul tema dello scrivere, sul tema dei corsi di scrittura creativa, ho sentito naturalmente molte osservazioni, anche obiezioni, anche dubbi, spesso comprensibili e fondati: una domanda che mi sento ripetere costantemente è per esempio: «Scrittori si nasce o si diventa?». Io direi, come prima risposta, che in senso stretto, non ho mai conosciuto nessuno che sia nato scrittore; ho conosciuto alcuni che sono diventati scrittori attraverso un tirocinio piuttosto duro che è fatto di prove, di crisi, di tentativi, di fallimenti, di frustrazioni, di momenti anche liberatori; un percorso impegnativo e faticoso, ben lontano da quella connotazione vagamente euforica che è implicita nell’aggettivo «creativo». La creatività certamente rientra nelle ambizioni di chi scrive, la creatività nel senso di fare qualcosa che esista oggettivamente al di fuori di sé, di inventare un testo che sia vivo, che rappresenti una sorpresa anche per chi l’ha scritto, una fonte di curiosità e di interesse per lui oltre che per il lettore. È chiaro che non tutti quelli che si applicano – anche con ambizione e tenacia – alla scrittura letteraria, diventano scrittori, ma solo quelli che hanno alcune attitudini.

Anche questo punto meriterebbe però qualche chiarimento. Innanzitutto noi non sappiamo come si manifestano queste attitudini. Certo la scuola non può essere un vaglio sufficiente, ci sono scrittori che si scoprono tali nella tarda maturità e che dopo i sessant’anni danno spazio a una vocazione magari repressa o differita; ci sono esempi straordinari in questo senso. Le modalità in cui si manifesta la vocazione sono abbastanza imperscrutabili. Inoltre, esistono diversi piani di scrittura; esiste una scrittura – come dire – di consistenza letteraria ed esiste una scrittura che si limita a essere una comunicazione efficace e funzionale. Quest’ultima è una meta che tutti possono ragionevolmente perseguire in un corso di scrittura. Nell’ambito invece della scrittura letteraria le acquisizioni più importanti sono riservate soprattutto a chi ha attitudini specifiche. Aggiungiamo poi che il risultato artistico pieno è un’avventura che non si può programmare, altrimenti tutti gli scrittori avrebbero risolto i loro problemi, io per primo; non ci sarebbero le disparità che abitualmente si constatano tra un testo e l’altro. Ci sono scrittori che scrivono un’opera di particolare intensità, magari eccezionale, e che nell’opera successiva rivelano invece cadute di gusto nel linguaggio e nei toni. È evidente che il risultato artistico è legato a fattori come l’ispirazione, l’energia, la concentrazione, il tema, la fortuna, anche, se vogliamo. Questi fattori si sottraggono al controllo, alla programmazione. Jules Renard, l’autore di Pel di carota, diceva che la sensazione di uno scrittore dopo aver terminato un’opera è di sapere scrivere la successiva, ma è un’illusione che cade non appena la comincia, dura l’intervallo tra un’opera e l’altra. Questo è vero, però è anche vero che le acquisizioni relative al linguaggio e alla forma che si sono fatte durante il percorso, sono acquisizioni preziose in generale; allora, come potremmo riassumere il problema? Che anche lo scrivere nel senso più alto e ambizioso comporta comunque l’acquisizione di una tecnica”.