Storia di due bambine

Una nera, adottata a Chicago da una famiglia bianca e "restituita" dopo qualche mese, e l'altra bianca, che la sostituì: da adulte si sono ritrovate

Due bambine alla Hallfield Junior and Infant Modern School, ottobre 1955 (Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images)
Due bambine alla Hallfield Junior and Infant Modern School, ottobre 1955 (Evening Standard/Hulton Archive/Getty Images)

Amy aveva otto anni e stava giocando a calcio con i suoi due fratelli in giardino, nella periferia di Chicago. Uno dei due le lanciò addosso la palla facendola cadere a terra e le disse: «L’altra nostra sorella sì che era una ragazza vera». Ma Amy non aveva alcuna sorella, o almeno così pensava. Corse dentro casa, trovò sua madre che fumava al tavolo della cucina e le chiese spiegazioni sulla frase del fratello: «È vero che hai avuto una figlia prima di me?», chiese la bambina, che, come i suoi fratelli, era stata adottata da neonata. Marge Sandberg le raccontò allora la sua storia. Inizia così un articolo del New York Times, sulla storia di una ragazza bianca che prese il posto di una ragazza nera e sulle rispettive vite.

Siamo negli anni Sessanta a Deerfield, Illinois: è un’epoca di forti tensioni razziali. Un costruttore acquistò a quel tempo un terreno dove sarebbero state costruite più di cinquanta nuove abitazioni e disse che una dozzina sarebbero state rivendute a persone non bianche. La piccola comunità a nord di Chicago – fatta di case a schiera, prati verdi e una popolazione interamente bianca – reagì con violenza: due delle nuove abitazioni in costruzione furono distrutte e qualcuno bruciò una croce sul prato di un residente che aveva sostenuto il progetto, un pastore locale che venne minacciato.

Marge Sandberg e suo marito, Len, ebreo, si erano trasferiti a Deerfield con i loro due figli adottivi alla metà degli anni Cinquanta. La signora Sandberg faceva parte di un gruppo locale che aveva supportato il nuovo progetto, che alla fine, però, fallì: l’amministrazione, su protesta della maggior parte dei cittadini, sequestrò la terra al costruttore. In quegli anni i Sandberg stavano progettando di adottare un altro figlio. Avrebbero chiamato la bambina Rebecca, che nacque il 19 aprile del 1962. Quando arrivò a casa, dopo qualche giorno, fu una sorpresa. Era nera. Len Sandberg pensò immediatamente alle croci infuocate, alle provocazioni razziste e all’agitazione che si era creata nella loro comunità al solo pensiero che delle persone nere si trasferissero. Marge Sandberg non era d’accordo con il marito, che riuscì però a imporre la propria scelta: la bambina venne “restituita”. Qualche mese dopo la coppia adottò un’altra neonata: era bianca e la chiamarono Amy.

Marge Sandberg morì di cancro nel 1997. Nel frattempo si era separata dal marito. La bambina bianca che crebbe con loro, Amy, che ora è sposata, ha 55 anni e ha preso il cognome del marito, Roost, ricominciò a pensare al segreto della sua famiglia nel 2012, dopo la famosa uccisione di Trayvon Martin, 17enne nero di Sanford, Florida. E cominciò a chiedersi dove fosse e che vita avesse avuto la bambina che il padre aveva mandato via. La trovò nel 2015: si chiamava Angelle Kimberly Smith e prese contatti con lei.

Amy Roost si è laureata in scienze politiche alla George Washington University, ha lavorato al Congresso, in alcuni uffici stampa, all’università, ed è diventata una giornalista freelance. Angelle Kimberly Smith, dopo il rifiuto dei Sandberg, venne adottata da Harry e Ruth Smith, che erano neri. Suo padre gestiva un negozio, sua madre era una casalinga. La sua educazione, ha raccontato la donna, è stata amorevole, è cresciuta in un buon quartiere borghese nel sud di Chicago e ha frequentato una scuola privata. Quando aveva 8 anni il padre morì per un attacco di cuore e le cose cambiarono. La madre cominciò a gestire il negozio della famiglia e nonostante l’aiuto dei vicini le cose diventarono più complicate. Angelle Kimberly Smith decise allora di trasferirsi a Los Angeles, attirata dalla prospettiva di una vita migliore.

Nonostante una vita familiare stabile, cominciò a frequentare ambienti poco sani, divenne dipendente da cocaina, visse come senzatetto e fu arrestata per furto con scasso. Ebbe quattro figli, due di loro mentre viveva per la strada, e perse la custodia di tutti e quattro. Alla fine riuscì comunque a riprendere in mano la sua vita, proseguì con gli studi, cominciò a lavorare come consulente e nel 2007 tutti i figli tornarono nella sua vita. Voleva saperne di più della sua storia, provò a cercare i suoi genitori biologici, ma non riuscì a trovarli. Quando Amy Roost le telefonò e le raccontò l’inizio della sua storia, accolse la notizia dell’abbandono della prima famiglia adottiva dicendo che non era arrabbiata e che non avrebbe voluto essere cresciuta da genitori bianchi in un quartiere bianco.

A partire da quella telefonata le due donne cominciarono a parlare di come erano andate le loro vite, di come e quanto essere l’una bianca e l’altra nera avesse influito. Smith ha raccontato di non aver mai considerato l’etnia un fattore fondamentale nella sua vita. Andava a scuola con bambini bianchi e godeva «di alcuni degli stessi privilegi dei bianchi». Si sentiva fortunata a essere cresciuta in un quartiere prevalentemente nero piuttosto che a Deerfield, dove ha detto che probabilmente avrebbe dovuto affrontare una discriminazione. «Non c’erano persone afroamericane in quella comunità».

Roost, da parte sua e dopo aver ascoltato Smith, ha ammesso di aver avuto per lungo tempo dei pregiudizi. Pensando alle loro vite e a com’erano andate, ha spiegato che tutto ciò di cui aveva goduto le era sembrato per lungo tempo un privilegio dei bianchi. Poi si è resa invece conto che le sue supposizioni sulla vita di Angelle Kimberly Smith non erano completamente vere: «Quando ho scoperto che era stata adottata da una famiglia nera, ho pensato che la sua vita probabilmente non sarebbe stata fortunata come la mia». Anche Amy Roost ha avuto momenti difficili: un membro della famiglia l’ha aggredita sessualmente, i suoi genitori hanno divorziato quando lei aveva 10 anni, la sua relazione con il padre fu molto complicata e dovette affrontare l’alcolismo della madre: «Puoi guardarmi e pensare “Oh, la bambina bianca probabilmente ha avuto un’infanzia migliore”», ha spiegato Roost. «Ma poi rimuovi uno strato e vedrai che è stata un’infanzia orribile». Da parte sua Angelle Kimberly Smith ha detto che se avesse vissuto l’infanzia di Amy Roost molto probabilmente sarebbe scivolata nella dipendenza da cocaina molto più rapidamente.

Il New York Times, che ha raccontato questa storia, ha parlato anche con il signor Sandberg, l’uomo che si è rifiutato di adottare una bambina a causa del colore della sua pelle: «È stata una decisione difficile e mi sono sentito in colpa. Mi vergogno di me stesso. Non so se ho preso la decisione giusta o quella sbagliata. Se ci penso ora, sento di aver sbagliato». Quando ha incontrato Angelle Kimberly Smith per la prima e unica volta in un ristorante della California, i due si sono abbracciati: «Grazie mille», gli ha bisbigliato all’orecchio la donna, «Hai fatto la cosa giusta».

Il New York Times commenta questa storia spiegando che mostra come le supposizioni sui privilegi dei bianchi e sulle difficoltà di essere nero negli Stati Uniti siano troppo facili e semplicistiche: «Le vite hanno colpi di scena inaspettati, indipendentemente dall’etnia delle persone coinvolte». Qualche altro giornale ha invece criticato il desiderio di lieto fine del New York Times. Senza nulla togliere alla storia personale di queste due donne, le traiettorie individuali sono inserite in un contesto sociale, in cui i determinismi rimangono radicati e dipendono anche dall’etnia e dalla classe sociale. Considerando solo l’infanzia delle due donne e la loro riunione pacifica, si rischia di cadere in un ingenuo ottimismo e dimenticare l’inizio della storia: quella di una bambina nera che l’America bianca non poteva sopportare.