Come cambiano le tutele previdenziali dopo la legge Cirinnà?

Per artigiani e commercianti le tutele dei coniugi saranno estese ai partner di un'unione civile, ma non ai conviventi di fatto

(Vincenzo Livieri - LaPresse)
(Vincenzo Livieri - LaPresse)

L’INPS ha pubblicato una circolare in cui chiarisce le modifiche al regime previdenziale di alcune categorie di lavoratori e lavoratrici dopo l’entrata in vigore della legge sulle unioni civili e sulle convivenze di fatto approvata nel maggio del 2016. La legge ha istituito per la prima volta in Italia “l’unione civile tra persone dello stesso sesso” come “specifica formazione sociale” e ha esteso a queste nuove formazioni alcune norme riferite al matrimonio. La seconda parte della legge si occupa di convivenza di fatto tra due persone, sia eterosessuali che omosessuali, che non sono sposate e che possono stipulare un contratto di convivenza per regolare le questioni patrimoniali tra di loro. La circolare del’INPS riguarda i lavoratori autonomi commercianti e artigiani ed è la numero 66 (si può leggere qui). Dice in sostanza che l’estensione dei diritti e degli obblighi è completa per chi è unito civilmente, mentre invece non riguarda chi convive.

Unioni civili
Per le unioni civili, e per l’INPS, sono rilevanti i commi 23 e 20 della legge 76 del 2016. Quest’ultimo prevede che «le disposizioni che si riferiscono al matrimonio e le disposizioni contenenti le parole “coniuge”, “coniugi” o termini equivalenti, ovunque ricorrono nelle leggi, negli atti aventi forza di legge, nei regolamenti nonché negli atti amministrativi e nei contratti collettivi, si applicano anche ad ognuna delle parti dell’unione civile tra persone dello stesso sesso». Questa equiparazione, nella gestione previdenziale degli artigiani, comporta l’estensione delle tutele previdenziali già in vigore anche ai collaboratori del titolare d’impresa o ai coadiuvanti uniti al titolare da un rapporto di unione civile. Quindi il titolare potrà indicare come proprio collaboratore colui al quale è unito civilmente identificandolo, nel campo relativo al rapporto di parentela, come coniuge. E a questo partner – che svolge attività lavorativa come collaboratore del titolare d’impresa oppure come coadiuvante – viene estesa anche l’assicurazione previdenziale.

Il comma 13 della legge sulle unioni civili ha a che fare con gli aspetti patrimoniali dell’impresa familiare e prevede l’applicazione di alcune disposizioni contenute nel libro primo del codice civile. Fra queste, è compreso anche l’articolo 230 bis, che regolamenta appunto l’impresa familiare. E dice:

«Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato».

L’equiparazione comporta l’estensione al partner in unione civile col titolare dell’impresa familiare di una serie di diritti e obblighi di natura fiscale e previdenziale.

Convivenze di fatto
La legge del 2016 estende al convivente una serie di tutele in materia penitenziaria, sanitaria e abitativa: ma, spiega l’INPS, «non introduce alcuna equiparazione di status, né estende al convivente, per quanto di interesse, gli stessi diritti/obblighi di copertura previdenziale previsti per il familiare coadiutore». Per questo motivo il convivente di fatto, non essendo né un coniuge, né un parente o un affine entro il terzo grado rispetto al titolare d’impresa, «non è contemplato dalle leggi istitutive delle gestioni autonome quale prestatore di lavoro soggetto ad obbligo assicurativo in qualità di collaboratore familiare».

Il comma 46 della legge sulle convivenze di fatto, però, dice che il convivente «che presti stabilmente la propria opera all’interno dell’impresa dell’altro convivente» ha una serie di diritti: partecipazione agli utili dell’impresa familiare e ai beni acquistati con essi, e partecipazione agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, commisurata al lavoro prestato. Questo vale però se tra le parti che convivono non c’è già un rapporto di subordinazione o di società. Ai fini previdenziali, tutto questo discorso non comporterà comunque alcuna modifica. E dice:

«L’eventuale attribuzione di utili d’impresa al convivente di fatto, da parte del titolare non ha alcuna conseguenza in ordine all’insorgenza dell’obbligo contributivo del convivente alle gestioni autonome, mancando i necessari requisiti soggettivi, dati dal legame di parentela o affinità rispetto al titolare».