“Per un figlio”, storia di srilankesi e italiani

Esce il 30 marzo il film di un regista italo srilankese su un ragazzo arrivato a raggiungere la madre che fa la badante

di Marina Petrillo

Il regista italo srilankese Suranga D. Katugampala (foto Marina Petrillo)
Il regista italo srilankese Suranga D. Katugampala (foto Marina Petrillo)

Per un figlio è uno dei primissimi lungometraggi diretti in Italia da un regista italiano di seconda generazione, Suranga Deshapriya Katugampala, ed è il suo primo film. Racconta i silenzi e la tensione fra Sunita, una madre srilankese che lavora in Italia, e il figlio adolescente che ha fatto arrivare dopo diversi anni. Fra tenerezze e rancori che risalgono all’assenza della madre durante l’infanzia del ragazzo, i due si incrociano per pochi minuti al giorno in un angusto appartamento con le bollette da pagare attaccate al frigorifero. Lei ruba piccoli scampoli di tempo al lavoro di badante per un’anziana signora italiana, lui bighellona fra la scuola e gli amici in una provincia che offre pochissimo, chino sul cellulare o dedito a rompere bottiglie e fantasticare di ragazze. Pur essendo arrivato dopo, il ragazzo è più integrato della madre, e la disprezza perché non capisce quello che lui studia a scuola. Allo stesso tempo, la madre è ancora saldamente legata alla nostalgia per il proprio paese, ed esprime un forte disagio per la cultura che l’ha accolta e che lei considera immorale.

Grazie anche all’uso dei primi piani, l’intimità è il tratto distintivo del film. Quella fra Sunita e la donna italiana di cui si prende cura, che a sua volta ha un figlio invisibile che si limita a mandarle la spesa e a lasciare istruzioni. Quella fra madre e figlio nei momenti domestici, quando entrambi sono esausti per il conflitto. Quella del ragazzo con i compagni di pelle chiara, con i quali si riduce a schiaffeggiare un ragazzo con la pelle ancora più scura della sua. E infine, quella fra il ragazzo e la prostituta malinconica che vive sullo stesso pianerottolo. In un bar di Milano, chiedo al giovane regista la ragione del suo sguardo sui personaggi così asciutto, essenziale. «Non soltanto è una piccola produzione», mi dice Katugampala, «ma il mio cinema di riferimento è il documentario. Ho cercato di applicare la filosofia del documentario alla fiction, in modo che agli attori restasse spazio anche per immergersi nella storia e poi improvvisare un po’. Per questo ho anche voluto che Kaushalya Fernando, che interpreta Sunita, passasse prima un po’ di tempo con mia cugina, che nella vita fa veramente la badante».
Il film è stato prodotto dalla Gina Films di Antonio Augugliaro, regista di Io sto con la sposa.

Gli srilankesi in Italia sono 102 mila, con un’inversione di tendenza che da qualche anno vede più uomini che donne, circa 55 mila i primi e 47 mila le seconde. Come ricorda il film, a spingere molti a emigrare sono stati trent’anni di guerra civile. La storia personale di Katugampala assomiglia in parte a quella del film. Oggi ha 29 anni, ed è diventato cittadino italiano soltanto l’anno scorso. È arrivato in Italia insieme al fratello minore quando ne aveva dieci, per ricongiungersi alla madre che per emigrare li aveva lasciati in varie sistemazioni da amici. I due fratelli hanno anche abitato in un piccolo tempio, e per alcuni periodi sono stati separati.

«Sentivamo una nostalgia per mia madre che è difficile da spiegare», racconta, «sicuramente abbiamo vissuto un abbandono, ma io non ricordo di essermi mai annoiato, e credo di essere stato molto fortunato a non poter mai guardare la tv, perché il mio immaginario si è formato per conto suo. Quando mia madre ci ha fatto arrivare in Italia, all’inizio siamo andati ad abitare in un paese in provincia di Viterbo, Carbognano. Mi ricordo un grande senso di avventura, e la prima volta che siamo arrivati alla stazione Termini a Roma, con le valigie, gli scatoloni e addirittura un motorino. A Carbognano io e mio fratello abbiamo fatto subito amicizia con i nostri coetanei. Eravamo gli unici stranieri, avevamo le nostre biciclette, e ci siamo trovati così bene che in due o tre mesi abbiamo imparato l’italiano. Poi quando è arrivato il momento per me di andare al liceo, mia madre, che è stata veramente la nostra roccia, ha deciso che né Carbognano né Viterbo andavano bene, e così ci siamo trasferiti a Verona, dove avevamo uno zio. Mia madre vive ancora oggi a Verona. Non ha ancora visto il film, lo vedrà il 31 marzo e quello per me sarà un giorno molto particolare».

La passione di Katugampala per il cinema è iniziata quando aveva sedici anni, e lui la riconduce direttamente alle storie che sentiva da bambino dagli immigrati di prima generazione: «Il mio rapporto con lo Sri Lanka è rimasto sempre molto acceso, ho continuato a seguire le notizie e la vita politica del paese. E poi, lì c’è una cultura cinematografica molto forte, anche se poco conosciuta perché messa in ombra dalla popolarità della Bollywood indiana». Katugampala si è accorto molto presto di essere a contatto con storie epiche, soprattutto quelle del viaggio degli immigrati, e il cinema gli è sembrato lo strumento per narrare quelle storie. «Gli srilankesi che sono arrivati in Europa negli anni Novanta migravano con la stessa frequenza degli africani di oggi, e anche nello stesso modo, cioè da clandestini, lungo una rotta che passava dall’India, poi dalla Russia e dalla Moldavia, ogni paese con la sua mafia, pagando i trafficanti. Mia madre ha speso tutto quello che aveva per fare il viaggio. E io sono sempre stato così appassionato di viaggio e scoperta che nel 2014 ho deciso di rifare il percorso della prima generazione a rovescio, dall’Italia allo Sri Lanka via terra. L’ho fatto anche per staccarmi da casa, che per me è l’Italia, e ho deciso che volevo viaggiare senza mai sapere dove avrei dormito la sera dopo, esattamente com’era successo a loro».

Katugampala ci tiene molto che Per un figlio sia un film italiano, anche se Kaushalya Fernando e il direttore della fotografia sono arrivati appositamente dallo Sri Lanka per le riprese. «Sono stato molto felice che al festival di Pesaro fosse l’unico film italiano in concorso», dice. «È sicuramente una storia universale, sul rapporto madre-figlio, sui conflitti dell’adolescenza». Gli dico che a me è sembrato anche un ritratto molto riconoscibile della provincia italiana, anche se appena suggerito dai viaggi di Sunita in motorino, dai capannoni industriali, dal bosco. «Per me è ambientato nel Nord Italia», dice, «potrebbe essere il Veneto. Io mi sento molto legato alla provincia e alle periferie – nelle periferie ci sono cresciuto e per me è lì che accadono le cose più interessanti, e mi sembra che anche il vero cuore dell’Italia sia lì».

Nel finale del film, un bosco veneto assume una potente valenza pittorica. «Entrare in chiesa o in monastero», dice il regista, «non mi restituisce più nessun mistero. Ma entrare in un bosco sì. E riprenderlo è facile, perché basta tacere e lasciarlo parlare».
E fra le piccole simmetrie che il film mette in scena, ce n’è una particolarmente interessante, quella dei simboli religiosi: l’altarino con la candela accesa e gli incensi a casa di Sunita, i crocifissi a casa della donna di cui si prende cura. «Mi sembra che il bigottismo si manifesti alla fin fine sempre nello stesso modo, sia in Sri Lanka che in Italia, e che spesso rappresenti un aggrapparsi a cose che in realtà non esistono più. La religione dà sicurezza. Come avevo già fatto in un cortometraggio qualche tempo fa, volevo esprimere questa idea in modo, diciamo, post-esotico. Per me, quando si stacca il rito religioso dal luogo nel quale è nato, si provocano sempre delle storture, che però le prime generazioni tendono a nascondere o ignorare. Questa cosa mi colpiva già da piccolo. Appena arrivato in Italia vedevo che qui nei monasteri srilankesi c’era il riscaldamento, o che il monaco aveva la sciarpa e i guanti e il cappotto. Chiedevo ai grandi e loro dicevano, eh, è così, e mi sembrava che facessero finta di niente perché c’era qualcosa che non volevano vedere. E cioè che la cultura è sempre in cambiamento. Questo è vero sia per gli immigrati, che si ostinano a restare aggrappati a una cultura che invece dovrà trasformarsi per forza, sia per gli italiani, che credono che la loro cultura possa restare immutata nonostante il contatto con altre culture. E poi io volevo raccontare che non sempre la madre biologica può essere anche la madre politica, e questo a maggior ragione nelle storie di immigrazione. Abbiamo tutti bisogno di varie madri da cui imparare».

Per ottenere la cittadinanza italiana, Katugampala ha dovuto aspettare di maturare la presenza continuativa sul territorio per dieci anni. Per lui, diventare cittadino italiano è stato soprattutto sentir riconosciuta un’appartenenza, «E poi, per me essere italiano vuol dire partecipare alla vita politica, poter votare, dire la mia su chi sarà il prossimo Presidente del consiglio. Credo anche che prima di arrivare alla legge sulla cittadinanza, dobbiamo accettare che la geografia sia cambiata, e accettare che il negozio di kebab faccia parte della mappa della città, perché è lì da vent’anni!». Come per altri italiani di altra origine, il momento in cui è diventato cittadino italiano è stato per lui anche un momento difficile.«Da una parte è un momento di felicità, dall’altra si prova un senso di tradimento, perché gli srilankesi perdono automaticamente la cittadinanza srilankese – che poi si può riacquisire, ma facendone richiesta a prezzo di un percorso burocratico altrettanto lungo e difficile. Ci si sente in continuo conflitto». Questo in qualche modo ha plasmato anche le sue convinzioni sul ruolo delle seconde generazioni: «I genitori per me sono degli eroi, hanno fatto cose che noi non faremmo mai, hanno fatto cose incredibilmente potenti. Per questo a noi figli spettano altri compiti, altre missioni, e dobbiamo chiudere il cerchio. Perfino l’Europa in cui viviamo è in decadimento, e sta perdendo i suoi valori, ma noi possiamo ascoltare i nostri saggi e riallacciarci al succo dei valori di provenienza».

Con Per un figlio, Katugampala sta anche sperimentando una discussione diretta con la comunità srilankese. «Ci sono pochissimi film srilankesi in Italia. Mi viene in mente Machan di Uberto Pasolini girato in Sri Lanka, e un altro film girato a Napoli, ma per entrambi è mancato il momento in cui portare il film al confronto con la comunità, e quindi con la Gina Films volevamo provarci – contattando direttamente le comunità senza passare dall’associazionismo. Così è nata l’idea di presentarlo nelle varie città proprio stando dentro a questa rete, per dare una lettura del presente, attuale. L’abbiamo fatto a Milano, e poi andremo a Napoli, Verona, Roma. In questi incontri vedi un lavoro di vera cittadinanza, in cui il cinema diventa un modo per partecipare. Noi vogliamo convincere la prima generazione a venire al cinema, e come seconde generazioni far loro da ponte. A Milano gli srilankesi mi hanno fatto capire che per quanto abbiano trovato il film un pochino acido, abrasivo, però ci si sono riconosciuti, l’hanno sentito vicino. E poi dalla comunità srilankese viene un impegno di guerrilla marketing che è ancora più dal basso e ancora più indipendente di quello che facciamo con la Gina Films!» dice ridendo, «stanno distribuendo le locandine del film nei negozi di alimentari e nei call center! Comunque il film è stato proiettato anche in Sri Lanka, e dalle reazioni ho capito che lì viene visto proprio come un film italiano».

Le date provvisorie per vedere Per un figlio al cinema:

30 marzo – Milano, Cinema Beltrade
31 marzo – Verona, Cinema Aurora
1 aprile – Bologna, Cineteca di Bologna
2 aprile – Firenze, Cinema Sala Esse
3 aprile – Roma, Cinema Madison
4 aprile – Napoli, Cinema Modernissimo
5 aprile – Messina, Cinema Apollo
6 aprile – Catania, Cinema Paradiso
7 aprile – Porto Empedocle, Cinema Mezzano
9 aprile – Palermo, Cinema Rouge et Noir

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