Come si calcola l’età della Terra

Nel corso del tempo sono stati elaborati diversi metodi, ma quello più affidabile ha a che fare con radioattività e meteoriti

di Sarah Kaplan - The Washington Post

(Photo by NASA/Newsmakers)
(Photo by NASA/Newsmakers)

Per millenni gli esseri umani hanno pensato che l’età della Terra corrispondesse a quella della nostra specie. In epoca romana c’era chi teorizzava che la nascita del nostro pianeta risalisse più o meno alla guerra di Troia, il primo evento storico di cui si aveva testimonianza. Un’altra fonte per le stime erano le linee di discendenza della Bibbia: nel 1600 l’arcivescovo di Irlanda James Ussher ricostruì la genealogia delle figure bibliche dichiarando che la Terra era stata creata alle sei del pomeriggio del 26 ottobre nel 4004 avanti Cristo.

Di fronte alla scienza moderna questi metodi non reggono più: con il tempo è emerso chiaramente che la nascita del nostro pianeta precede l’origine del genere umano. Oggi gli scienziati sanno che in realtà la Terra ha 4,54 miliardi di anni, un’età ricostruita grazie a diverse serie di prove ottenute da dati geologici.

I tentativi moderni di determinare l’età della Terra iniziarono con Niccolò Stenone, un anatomista e geologo danese che fu tra i primi a capire che i fossili sono resti di creature viventi. Steno disse che i geologi potevano ottenere informazioni sulla storia della Terra analizzando gli strati rocciosi che si erano depositati nel corso dei millenni e, che secondo lui erano in grado di fornire una cronologia a ritroso del nostro pianeta. Un secolo dopo William Smith capì che alcuni strati rocciosi in posti molto distanti tra loro risalivano allo stesso periodo. Smtith realizzò un catalogo delle stratificazioni sostenendo che ognuna di loro rappresentasse un’epoca distinta nella storia della Terra, un principio conosciuto come successione faunistica.

L’accumulo di prove puntava in direzione di una nuova e straordinaria idea, e cioè che la storia della Terra precedesse di moltissimo tempo la memoria umana. Nel 1788 il geologo scozzese James Hutton pubblicò Teoria della Terra, che introdusse il concetto di “tempo profondo”. Le ripercussioni del libro furono rivoluzionare: Hutton non solo sosteneva che la Terra non fosse di formazione recente, ma anche che non era statica. Le stesse forze geologiche che agiscono oggi – come il deposito, l’erosione e il sollevamento – modellano la Terra da diverse ere, «senza traccia di inizio o prospettiva della fine».

La scienza ha poi fornito un nuovo modo di pensare alla storia della Terra, facendoci capire che è possibile conoscere la sua storia. Invece di dare per scontato che la Terra fosse il risultato di catastrofi passate – come per esempio un’immensa inondazione globale – gli scienziati riuscirono a spiegare gli antichi dati ottenuti dalle rocce con fenomeni esistenti. La teoria ha generato molti tentativi seri – anche se non completamente riusciti – di determinare l’età della Terra sulla base di processi naturali in corso. In un caso, venne calcolato il tempo che sarebbe necessario ai fiumi per portare abbastanza minerali dissolti nell’oceano e ottenere la sua attuale salinità (risposta: dai 90 ai 100 milioni di anni). Alcuni tentativi di analizzare la velocità media di sedimentazione hanno concluso invece che sarebbero necessari dai 3 milioni agli 1,6 miliardi di anni per far sì che gli strati rocciosi assumano il loro spessore attuale.

La grande innovazione è arrivata però con l’invenzione della datazione radiometrica. Poco dopo la scoperta della radioattività, nel 1896, gli scienziati capirono di poter determinare l’età di una roccia misurando la quantità di uranio che si era trasformata in piombo al suo interno. Il processo funziona in questo modo: i nuclei degli elementi radioattivi decadono – cioè si scompongono spontaneamente – a velocità prevedibili. Per esempio, un dato insieme di uranio si trasformerà in piombo decadendo in un tempo compreso tra i 710 milioni e i 4,47 miliardi di anni, a seconda dell’isotopo usato (questo numero viene definito come “l’emivita” dell’elemento). Di questo uranio, creato durante una supernova avvenuta molto tempo prima dell’esistenza del nostro sistema solare, rimangono alcune tracce sulla Terra. Quando una roccia si forma nelle profondità del nostro pianeta, gli atomi dell’uranio rimangono intrappolati al suo interno. Con l’invecchiamento della roccia questi atomi “decadono”. Analizzando gli isotopi radioattivi all’interno di questa roccia gli scienziati sono in grado di determinare da quanto tempo esiste.

Nel 1913 il geologo Arthur Holmes pubblicò The Age of the Earth, il primo importante tentativo di determinare l’età della Terra usando la datazione radiometrica. «Forse chiedere l’età alla nostra Madre Terra è un po’ indelicato», scrisse Holmes nell’introduzione del libro, in cui stimò l’età del pianeta in circa 1,6 miliardi di anni. Quando due anni dopo presentò le sue scoperte alla Geological Society di Londra, Holmes fu «attaccato violentemente» dai critici. «Mi sono ritrovato a essere in un’esasperata minoranza di una persona», raccontò successivamente. Il tempo, però, gli avrebbe dato ragione. Negli anni Quaranta la maggioranza della comunità geologica aveva accettato la sua stima rivista che determinava l’età della Terra in 4,5 miliardi di anni, una cifra non lontana da quella che usiamo oggi.

I geologi moderni usano anche dei minerali chiamati zirconi, piccoli cristalli che si formano nelle eruzioni vulcaniche e che sono abbastanza resistenti da sopravvivere per miliardi di anni. Gli zirconi sono fatti di silice, ossigeno e zirconio, ma a volte vengono contaminati dall’uranio durante la loro formazione. Per via della struttura dei cristalli, quando si creano all’interno della Terra gli zirconi non contengono mai piombo. Questo – per usare le parole sul sito della University of California di Berkeley – li rende degli «orologi quasi perfetti»: qualsiasi traccia di piombo trovata dagli scienziati nei cristalli deve provenire dal processo di decadimento radioattivo. Per il processo gli scienziati usano una tecnica chiamata spettrometria di massa, che, a grandi linee, consiste nel puntare un laser sui zirconi per stimolare gli atomi che si trovano all’interno. Successivamente la luce emessa viene separata nelle parti che la compongono (uno spettro), in modo da rilevare le tracce di particolari elementi.

Anche gli zirconi più antichi, però, sono più giovani rispetto alla Terra. Sul nostro pianeta ogni cosa finisce con l’essere erosa o incorporata di nuovo all’interno della crosta terrestre. Per ottenere una data dell’origine del nostro pianeta davvero precisa gli scienziati devono guardare oltre, e i meteoriti offrono loro esattamente quello di cui hanno bisogno. Gli asteroidi da cui provengono i meteoriti sono tra gli oggetti più primitivi nel nostro sistema solare. La loro formazione risale più o meno a quella del nostro pianeta e di qualsiasi altro corpo nel nostro sistema solare. Ma dal momento che non sono stati modificati dai processi tettonici che plasmano la Terra i meteoriti sono come capsule del tempo.

La prima stima davvero affidabile sull’età del nostro pianeta è stata ottenuta grazie all’analisi radiometrica di Canyon Diablo, un enorme meteorite di ferro che attraversò l’atmosfera terrestre dallo spazio 50mila anni fa e fu trovato da alcuni scienziati americani nel 1891 (i nativi americani conoscevano e usavano i frammenti ferrosi del meteorite già dalla preistoria). I ricercatori usarono le tecniche dell’uranio-piombo per stimare l’età del meteorite in 4,54 miliardi di anni, con un margine di errore di circa 70 milioni di anni. A oggi è la stima migliore sull’età del pianeta, stando allo U.S. Geological Survey, un’agenzia scientifica del governo federale americano.

Gli scienziati continueranno a ridurre il grado di incertezza delle loro stime analizzando ogni roccia antica della Terra, meteorite o campione del sistema solare su cui riescono a mettere le mani. Come spiega lo U.S. Geological Survey, «la stima migliore sull’età della Terra non deriva dalla datazione di singole rocce, ma considera la Terra e i meteoriti come parte dello stesso sistema in evoluzione».

© 2017 – The Washington Post