(Eamonn McCormack/Getty Images)
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Robbie Williams in 16 canzoni, dopo Sanremo

Da "Back for good" a quelle molto belle dell'ultimo disco, passando per "Strong" e "Suprime"

(Eamonn McCormack/Getty Images)

Mercoledì sera, al Festival di Sanremo, il principale ospite straniero è stato Robbie Williams, cantante nato nel 1974 in Inghilterra e famoso prima come membro dei Take That e poi come solista. Queste sono le dieci canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist integrate con alcune di quelle più recenti. Prima delle canzoni una breve introduzione su Robbie Williams, sempre tratta da Playlist:

La cosa impressionante di Robbie Williams è l’effetto che fa sulle ragazze. Non è particolarmente bello, ma fa perdere la testa alle più insospettabili, dalle irriducibili cultrici della musica magrebina alle snob che di solito sputerebbero in faccia a chiunque si avvicini ai primi cinquanta posti della classifica. Lui di solito li occupa tutti e cinquanta ed infila una canzonetta usa e getta dopo l’altra, una meglio dell’altra. È dannatamente bravo, la miseria.

Back for good

(Nobody else, 1995)
“Back for good” è una grandiosa melassata dei tempi dei Take That, che se finisce su queste pagine è solo perché se ne trova in rete una versione dal vivo di Robbie Williams in cui lui trascina il pubblico di ragazzine appassionate nel coro sulla strofa, e poi con un colpo di genio trasforma il ritornello in un pezzo punk durissimo e spietato, tutto chitarra e batteria e lui che urla neanche fosse Sid Vicious. Una versione dello stesso genere assieme al suo ex socio Mark Owen sta sul DVD “What we did last summer”.

Let me entertain you

(Life thru a lens, 1997)
“Lasciate che vi diverta”: una precoce dichiarazione d’intenti, ampiamente rispettata, ampiamente rock.

Strong

(I’ve been expecting you, 1998)
“You think that I’m strong: you’re wrong, you’re wrong”
 Robbie Williams lo va dicendo ancora oggi, che quello che vediamo non è lui, che per andare sul palco deve convincersi di essere un altro eccetera. D’altronde, al posto suo, cosa fareste? E quanto è Beatles (via Tears for Fears) il passaggio “step inside the sun…”?

Supreme
(Sing when you’re winning, 2001)
“All the best women are married, all the handsome men are gay”.
 Poi un ritornello appiccicosissimo e, ciliegina, la lunga citazione di “I will survive” di Gloria Gaynor (sul cui tema gira più mimeticamente tutta la canzone).

The road to Mandalay

(Sing when you’re winning, 2001)
Mandalay è la seconda città della Birmania, e ha un milione di abitanti. La strada per Mandalay era già stata una poesia di Kipling divenuta una canzone di Sinatra. Robbie Williams invece non ne racconta granché, associando un viaggio orientale a un consuntivo di traversie e sbagli fatti.

Let love be your energy
(Sing when you’re winning, 2001)
Questa è una canzone dei Tears for Fears, secondo periodo. Cioè, non che lo sia davvero: nel senso che sembra tirata fuori da “The seeds of love”. Testo motivazionale, come dicono quelli delle case editrici da testi motivazionali: “se volete cambiare, che l’amore sia la vostra energia”. Roba da rimanerci secchi.

Something beautiful

(Escapology, 2003)
“If you can’t wake up in the morning”: formidabile canzonetta estiva di ottimismo spiccio, per cui “qualcosa di bello capiterà”. Parapappapà…

Sexed up

(Escapology, 2003)
L’uomo è spiritoso. Una delle sue canzoni più romantiche e da sventolare l’accendino dice in realtà che non ne può più di lei: “perché non ci molliamo? Non abbiamo più niente da dirci”. E ancora, dove il suono strappebbe la lacrimuccia: “Fottiti, i tuoi gusti non mi sono neanche mai piaciuti. Spero che tu sparisca. Vado a trovarmene un’altra”. Perfetta.

Advertising space
(Intensive care, 2005)
Parla di Elvis e cita True romance, 
il film di Tarantino con Christian Slater che riesce a parlare con Elvis. In mezzo, Marlon Brando, il Watergate, e il Vietnam. Ma tutto quello che resta è lo spazio per la pubblicità.

Sin sin sin
(Intensive care, 2005)
Elettropop da anni ruggenti dell’elettropop, un refrain con le esse che funziona sempre (come “Say say say”, o “Say it isn’t so”, o “S.O.S”, o “Someone somewhere in summertime”), e un primato scocciante: la più bassa posizione in classifica (ventiduesimo) nella storia dei singoli di Robbie Williams.

Lovelight
(Rudebox, 2006)
Era un pezzo di Lewis Taylor, eclettico musicista e produttore britannico, che lo aveva messo in un disco del 2003. Molto soul, ma montato su un robusto arrangiamento dance di Mark Ronson, un altro che ne sa inventare, con i suoni. Più che in ogni altro paese del mondo, andò forte in Italia dove il singolo arrivò al quarto posto in classifica.

We’re the Pet Shop Boys
(Rudebox, 2006)
Baracconata alla Pet Shop Boys, prodotta dai Pet Shop Boys in un disco ricco di collaborazioni, e suonata e cantata dai Pet Shop Boys con un titolo spiritoso da Pet Shop Boys e un testo autobiografico sui Pet Shop Boys. Insomma, Robbie Williams – che dice di essersi sentito un Pet Shop Boy cantandola – non fa quasi niente, ma l’idea è divertente.

Candy
(Take the crown, 2012)
È una filastroccona non particolarmente originale che proprio per il suo andamento va forte tra i bambini (e sempre di caramelle parla): però la successione di note gonfie che sta sotto la filastroccona non è niente male. A questo punto, poi, suonavano un po’ tutte imitazioni di canzoni di Robbie Williams.

The heavy entertainment show
(The heavy entertainment show, 2016)

Nel 2016 Robbie Williams ha pubblicato il suo primo disco da quarantenne, e il primo in quattro anni (con l’intervallo di un altro inutile disco di Robbie Williams che canta canzoni “swing”): e gli è venuto un disco pop perfetto di Robbie Williams, con una serie di canzoni facili, vivaci e tutte canticchiabili dall’inizio alla fine. Qualcuna più prevedibile, altre più originali, come quella che apre il disco, che è una specie di ouverture con tre diversi andamenti che si succedono, e lui che fa da imbonitore e dice tra l’altro “He would sell his children for a hit in Belgium”.

Welcome to the Heavy Entertainment Show
Where Eminem meets Barry Manilow
I am notorious
For making all the crowd sing the chorious
I just made up that word

Motherfucker
(The heavy entertainment show, 2016)

Il titolo è un insulto piuttosto greve che però ha acquistato una certa disinvolta diffusione negli slang americani, e implicazioni diverse. La canzone parte lieve, solare, con una chitarra e lui che con dolcezza spiega a suo figlio che la sua vita sarà un casino perché la sua famiglia era un casino di spacciatori, falliti, e sfasciati: “Mi piacerebbe cantarti una canzone che dice che andrà tutto bene, ma mi conosci e sai che ti mentirei”.
One of the things you get from me and your mother
Is that we’re bad motherfuckers, you’re a bad motherfucker
Ma se non lo sapete, è da cantare felici a squarciagola.

Sensitive
(The heavy entertainment show, 2016)
Pezzo col tiro, con un groove, dicono quelli. Nel 2016, Robbie Williams, bravo.