Cosa sperare

Vincenzo Latronico spiega ai lettori della Frankfurter Allgemeine com'è andato il referendum italiano per un trentaduenne italiano

di Vincenzo Latronico

( TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)
( TIZIANA FABI/AFP/Getty Images)

Questo articolo di Vincenzo Latronico è uscito sulla Frankfurter Allgemeine domenica, a commento per i lettori tedeschi del risultato del referendum sulle riforme costituzionali in Italia.

C’è una vignetta del satirista Altan in cui una donna guarda il lettore negli occhi e si chiede: “Perché fare riforme che scontentano tutti, se sono tutti già scontenti adesso?”
Da quando è uscita in Italia quella vignetta è passato almeno un decennio, e quindi – mi serve uno sforzo di memoria – almeno sei governi, senza contare il settimo che viene rabberciato mentre scrivo. Eppure, nel pieno della crisi politica innescata dal referendum, la domanda sembra estremamente attuale. Certo, è una domanda satirica: ma in un paese in cui il primo partito è diretto da un comico forse vale la pena di prenderla sul serio.

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Sono riuscito a non litigare con nessuno dei miei amici, nelle settimane prima del referendum. Rileggendo i nostri scambi di e-mail mi rendo conto che ci è voluto uno sforzo di tutti: con perifrasi imbarazzate e timidi eufemismi che risultano ridicoli e formali fra persone legate dall’affetto e da valori condivisi. Ma quelle perifrasi erano necessarie, perché la discussione aveva raggiunto un livello di virulenza sorprendente per quella che in fondo era una questione tecnica da costituzionalisti; so di amicizie rovinate e crisi familiari per colpa di un sì o di un no. Mio padre ha quasi rotto col suo migliore amico; una mia amica non risponde da giorni al telefono alla sorella. Alle elezioni politiche, di norma, votano tutti lo stesso partito.

Negli ultimi tempi si è parlato molto della cosiddetta filter bubble: la tendenza che hanno i social network a circondarci di opinioni simili alle nostre, di persone affini, per “darci un’esperienza migliore” (e tenerci più a lungo, e servirci più pubblicità). Questo filtro impedisce a chi si trova in una nicchia – i poliziotti, i critici letterari, i neofascisti – di percepire la vastità delle altre: se vivo circondato da gente che la pensa come me, non avrò idea di quanti sono a pensarla diversamente, e le loro posizioni mi sembreranno irragionevoli e aliene.

La filter bubble è stata incolpata dell’impreparazione con cui le vittorie di Brexit e Donald Trump hanno colpito gli analisti politici – certi, dalla loro nicchia, di un esito diverso. Eppure nel caso del referendum in Italia questo filtro non ha funzionato.

Questo dovrebbe indicare che la questione era indipendente dalle idee politiche, come la fede calcistica o i gusti letterari: ma una modifica all’assetto costituzionale è la questione più politica che si possa immaginare. E allora? Una spiegazione può essere che la questione non era quella.

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In molti hanno rinfacciato all’ex premier Matteo Renzi di aver “personalizzato” il referendum, dichiarando quasi un anno fa che si sarebbe dimesso in caso di una vittoria del no. Più che dire che questa scelta è stata un ricatto o un errore (è stata entrambe le cose) è interessante osservare che questo faceva sì che il referendum offrisse due sole espressioni a quattro posizioni diverse. Si poteva essere d’accordo o no con la riforma; e soddisfatti o no del governo Renzi. Ma le due linee divisorie non erano affatto congruenti, e questo dato aiuta a spiegare, se non il voto, ciò che è successo prima e dopo.

Prima, ha intossicato ulteriormente il dibattito. Non c’era una vera questione di cui discutere, ovviamente, visto che le questioni erano due. Chi osservava che la riforma era timida e scritta male (è vero) si sentiva rispondere che una vittoria del no avrebbe aperto le porte a un governo populista (è vero anche questo); chi auspicava che una vittoria del sì avrebbe rafforzato il processo politico italiano (ragionevolmente) ascoltava in risposta un elenco (spesso ragionevole) delle contraddizioni del governo Renzi. In un dialogo fra sordi, i sordi finiscono per alzare la voce. E così persone con idee estremamente vicine si sono trovate su schieramenti opposti; e questo – alimentato dalla retorica violenta di entrambe le parti e dal clima di fine-del-mondo che si respirava nei media a ridosso dell’elezione di Donald Trump – è andato ad aggravare le fratture di un paesaggio politico già scissionista e pulviscolare di suo.

Ora siamo nel dopo. Il referendum non è passato e il governo è caduto. Questo corrisponde solo a una delle quattro posizioni possibili; gli altri hanno almeno un motivo, se non due, di lamentarsi di un esito che hanno scelto controvoglia o che non hanno scelto affatto. Ci sono meno rimorsi espliciti che nel caso di Brexit, ma fioccano le accuse e i mea culpa fra i sì rancorosi e i no incerti. Collettivamente, formano una maggioranza eterogenea di delusi. La riforma che scontentava tutti non è passata, e ora sono quasi tutti scontenti: chi come prima, chi di meno, chi di più.

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Io faccio parte di quelli che di più.
Ho trentadue anni; alla prima elezione di Silvio Berlusconi ne avevo dieci. La mia generazione ha conosciuto la vita politica solo per come è stata da allora, attraverso quattro leggi elettorali e quindici governi. Per contarne altrettanti nella Repubblica Federale Tedesca bisogna risalire al quarto mandato di Adenauer del 1961.

In questa vita politica, gli unici progetti in grado di unificare una maggioranza, nella farinosa compagine di partitelli in costante lizza fra loro, erano i progetti contro. Berlusconi si è candidato contro una fantasmatica minaccia comunista; la sinistra, defluita in mille rivoli dopo la fine del PCI, è riuscita a federarsi temporaneamente solo nel progetto bilioso e fallimentare noto come “antiberlusconismo”: ma senza una proposta politica unificante, una visione del mondo. La Lega Nord è cresciuta facendo campagna contro il Suditalia prima e gli immigrati poi. Il MoVimento 5 Stelle è più o meno contro tutti: la V nel nome è maiuscola in ricordo della parola d’ordine dei primi raduni, che si chiamavano “vaffanculo day”.

Matteo Renzi, in qualche misura, aveva preso una direzione diversa. In origine si era presentato con il brutto slogan di “rottamazione” – di nuovo contro, stavolta una generazione di politici accusata di aver fatto il suo tempo. Ma poi aveva vinto le primarie della sinistra, e guidato un governo di coalizione che includeva – cosa inaudita nei vent’anni precedenti – politici di entrambi gli schieramenti. Era sceso a molti compromessi pur di portare avanti un’agenda di riforme.

Questo potrebbe essere visto come un segno di leadership; in Italia è stato visto come un tradimento. C’era qualcosa di sospetto nel fatto che mettesse il suo programma al di sopra dell’odio per l’avversario, giungendo a scendere a patti con Berlusconi pur di far passare le leggi a cui teneva. In un paese in cui da vent’anni i progetti politici si fondavano sul contrasto del nemico, Renzi è apparso come quello che col nemico ci va a cena.

Dal mio punto di vista la cena è stata buona. L’Italia ha avuto una legge sulle unioni civili e sul terzo settore; ha cominciato a tappare i buchi del sistema scolastico pubblico e cercato una forma contrattuale che ridimensionasse il precariato. Per molti della mia generazione è stata la prima volta che questi temi, di cui si discute da quando ho memoria, sono stati affrontati con valori e idee precise: la prima volta che ci siamo sentiti parte di un progetto politico costruttivo.

Adesso questo progetto ­­è finito. Associando la vita del suo governo al referendum costituzionale Renzi ha dato ai sostenitori del no l’argomento più forte che in Italia si possa immaginare: qualcosa a cui essere contro.

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Ho pranzato a Roma con un’amica qualche giorno dopo il referendum. Eravamo in una trattoria piena di turisti, e il chiacchiericcio in inglese e cinese e tedesco ci aiutava a dimenticare che eravamo a poche centinaia di metri dal luogo in cui era caduto il governo.

Tentennando, ho ammesso che sono stato fino all’ultimo convinto del sì, ma il weekend del referendum ero fuori città per lavoro e troppo demotivato per tornare apposta. Tentennando, M. ha ammesso che è stata fino all’ultimo per il no, ma alla fine ha deciso di non votare perché il governo le sembrava il meglio in cui, in Italia, oggi, si potesse sperare. Poi per un vecchio automatismo si è corretta: “Cioè, il meno peggio.”

È un automatismo che conosco. Da anni è l’espressione con cui, specialmente a sinistra, si giustifica l’astensione – dicendo che si vorrebbe votare per il migliore, non per il “meno peggio”. Ovviamente, da un punto di vista semantico, le due espressioni vogliono dire esattamente la stessa cosa. Se questo sia anche il punto di vista politico è probabilmente la grande questione della politica in Italia – una questione che il referendum ha spalancato come una ferita a cui salti la sutura.

Superando l’imbarazzo – il non-voto era la posizione meno difendibile, l’unica scelta che entrambe le parti concordavano nel disprezzare – M. ed io abbiamo provato a parlare del futuro. Eravamo entrambi frustrati dal risultato: è paradossale, visto che abbiamo rinunciato a influirvi, ma forse significativo di qualche cosa – un tipo di scoramento, una forma di impotenza.

Ci sarebbero state delle consultazioni per un nuovo governo, e poi delle nuove elezioni, dei nuovi schieramenti. Era presto per le previsioni, così ho chiesto a M. non cosa pensava che accadrà, ma cosa sperava: quale esito, anche poco probabile, le sembrava il migliore. Lei ci ha riflettuto per qualche secondo punzecchiando un carciofo con la forchetta.
“Non lo so”, mi ha detto. “Non è che non spero in niente, eh. Però non so bene in cosa sperare.”
Sulle prime mi è sembrata una risposta assurda. Ma in realtà non lo so neanche io.