Il ritorno delle madri perfette

Annalena Benini sulle madri che si incrociano alle recite dei figli e sulla loro grande menzogna

(JAN WOITAS/dpa)
(JAN WOITAS/dpa)

Il Foglio di venerdì ospitava un articolo di Annalena Benini sulle madri-perfette incrociate alla fine dell’anno alle recite e ai saggi dei figli, sulla loro grande menzogna e sulla conseguente difficoltà nell’imitarle anche a partire dalla cosa più semplice: comprare e usare la macchina per fare il pane in casa.

Arrivata davanti all’ingresso del teatro le ho viste, riunite in piccoli gruppi, l’aria euforica e sicura di chi non ha scordato niente, e i fiori in mano. Io non avevo fiori (per le bambine alla fine del saggio? Per ringraziare le maestre di danza? O erano regali dei mariti, dei fidanzati, degli amanti?) e in mano stringevo solo un biglietto trovato sul parabrezza del motorino: ma come parcheggi merda merda merda merda.

Le madri perfette, a guardarle così, con il sole ancora alto perché è quasi estate e ai saggi di fine anno si arriva in anticipo e fiduciosi che questa volta non si uscirà a notte fonda, con i capelli vaporosi, i selfie, i mazzi di fiori e la merenda pronta per tutti contro i cali di zuccheri sul palco, sono belle, vicinissime, moderne e raggiungibili. Spesso mi salutano, e io sono contenta. L’ultima volta che ho chiacchierato con una di loro, davanti a scuola, dopo mezz’ora ho comprato una macchina per fare il pane in casa. E’ stato un bel periodo quello, ed era un pane davvero buono: mio marito era contento, diceva a tutti che facevo il pane in casa (anche se le vere madri perfette non usano la macchina ma le mani), i bambini erano contenti e lo dicevano ai loro amici (chiedo scusa alle altre madri non perfette se si sono sentite tradite, questa storia è per loro). La sera prima di andare a dormire mettevo la farina, l’acqua, il latte, il lievito e sceglievo la funzione notturna. La mattina ci svegliavamo con il profumo del pane. Avevo comprato molte farine, anche integrali, e molte marmellate da mettere sul pane caldo, che la sera a cena era ancora buonissimo. Tenevo, dentro barattolini colorati, i pinoli, le uvette, i semi di sesamo anche se non mi è mai piaciuto il pane al sesamo.

La quarta mattina avevo già deciso di mettere su Instagram una foto di questa perfetta felicità, perché sentivo di essere passata dall’altra parte, ed era accaduto anche piuttosto facilmente: la perfezione materna era un mio diritto, me l’ero meritata con la macchina del pane. Le merendine, tutte uguali nelle confezioni trasparenti, mi mettevano a disagio, perché nelle istruzioni della macchina avevo scoperto la funzione: brioches. Sapevo di poterci arrivare. Basta davvero pochissimo a illudersi di avere passato il confine, basta un quasi nulla per guardare il mondo con lo sguardo di chi, comunque, qualunque cosa accada, fa il pane in casa. Ho pensato molte cose pericolose in quel periodo, compresa quella di portare il pane fatto da me a una cena di amici, al posto del vino. E stavo per fotografare il tavolo della cucina con le tovagliette e le tazze e le marmellate e un crescente senso di bravura, ma il pane quella mattina è uscito strano. Dentro era crudo, e non aveva lievitato. Che cosa ho sbagliato?

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