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  • Mercoledì 16 marzo 2016

L’ultima rivolta di Los Angeles, e la prossima

"Giorni di fuoco" di Ryan Gattis racconta i sei giorni di violenza dopo l'assoluzione dei poliziotti bianchi che picchiarono Rodney King, un tassista nero

Un dettaglio della copertina di Giorni di fuoco di Ryan Gattis, uscito in Italia per Guanda
Un dettaglio della copertina di Giorni di fuoco di Ryan Gattis, uscito in Italia per Guanda

Il 3 marzo è uscito in Italia per Guanda Giorni di fuoco, il romanzo di Ryan Gattis che racconta le violenze avvenute a Los Angeles per sei giorni del 1992, tra il 29 aprile e il 4 maggio, dopo l’assoluzione dei quattro poliziotti coinvolti nel pestaggio di Rodney King, un tassista nero che non si era fermato al loro ordine. Per scrivere il romanzo, che è il suo terzo, Gattis si è documentato per più di due anni, intervistando testimoni degli scontri tra la comunità nera e le altre che vivono nella città. Gattis vive a Los Angeles, ma è nato in Colorado e l’idea di scrivere Giorni di fuoco gli è venuta ascoltando i racconti delle persone che ha incontrato girando per la città insieme al gruppo di street artist UGLARworks.

scrittore Ryan Gattis

Giorni di fuoco – tradotto da Katia Bagnoli – è scritto in prima persona, da una ventina di personaggi per lo più appartenenti a una gang latina – una clica – nei giorni del saccheggio che diventano l’occasione per una serie di regolamenti di conti cominciati con il feroce omicidio di un impiegato in un fast food mentre ritorna a casa, a cui seguono rapine, vendette, omicidi che si espandono come un incendio coinvolgendo persone che non c’entrano niente. Il ritmo è velocissimo, i cambi di punti di vista continui, le voci si accavallano e danno il cambio, in una narrazione collettiva e concatenata che ricorda, per struttura, quella di America oggi di Robert Altman.

Il realismo, la crudezza e la violenza, la quantità dei protagonisti e personaggi, fanno venire in mente lo stile di James Ellroy in American Tabloid, con la differenza sostanziale che la Los Angeles raccontata da Gattis è molto più simile a quella attuale, e i fatti sono veri, o comunque molto vicini a quelli che effettivamente accaddero. La particolarità del libro – che si legge come un romanzo d’azione – è che la violenza non diventa mai spettacolo, e non c’è alcuna traccia di compiacimento. Ma il racconto oggettivo di quanto sia sottile e fragile la crosta di quella cosa che chiamiamo civiltà. Non ci sono giudizi, solo il resoconto in prima persona delle ragioni soggettive di tutti, spacciatori, tossici, killer, picchiatori della polizia, piromani. In Giorni di fuoco sono tutti cattivi, ma non ci sono cattivi. Il titolo originale era All involved, Tutti coinvolti.

Nel capitolo che pubblichiamo, uno dei personaggi – il tossico e spacciatore Antonio Delgado detto Lil Creeper – strafatto e in fuga da una gang che vuole ucciderlo, lancia bottiglie molotov a caso per la città, attraversando autostrade deserte a causa del coprifuoco: «Il momento migliore per guidare a L.A. è quando sta andando a fuoco». Nel suo delirio Lil Creeper ripercorre le rivolte razziali che a Los Angeles riesplodono regolari, a distanza di vent’anni l’una dall’altra, nel 1944, nel 1965, nel 1992, prevedendo che riesploderanno nel 2022, «o anche prima, non so». La causa è sempre la stessa: «L.A è grande come non so ma gli abitanti stanno nei loro ghetti». «È come se ogni razza fosse un pugile all’angolo».

ryan gattis giorni di fuoco copertina

***

GIORNO 2
Antonio Delgado Alias Lil Creeper

Giovedì 30 aprile 1992. Ore 10:12

Mi sveglio che sono sull’erba e cazzo, che tremendo mal di testa che ho. Tipo una pressione dappertutto. È come quando ho un brutto raffreddore e mi sento come se la faccia collassasse. E all’inizio mi chiedo cioè, come ci sono arrivato qui?
Poi mi ricordo il furgone e l’erba e che ho fatto saltare la casa di Momo, e guardo e il furgone c’è ancora, è lì su certi enormi segni lasciati dalle ruote con l’erba e la terra sollevate.
Adesso il fuoco fa un superbaccano. Sembra che una bestia feroce si sta mangiando il muro, se lo mastica respirando forte, strappandogli via dei brandelli grossi così e sta diventando un’unica grossa macchia nera.
Arretro fino al furgone per paura che mi mangi e piano piano mi rialzo.
Comincio a intravedere lo schema di questa cosa. 
Mi sfugge del tempo, come quando c’è un taglio in un film. Un salto temporale, hai presente? Ecco com’è la mia vita in questo preciso momento. E mi viene da domandarmi, cioè, dovrei rallentare, tipo? Sulle prime mi pare veramente un’ottima idea, calmarsi un po’, ho reso? Prendere una stanza in un albergo da qualche parte con una piscina e dormire su una di quelle poltrone che si piegano a metà.
Ma poi penso: nah. 
Devo continuare a muovermi, cazzo. Perché sono una bomba. 
E se non continuo a muovermi, esplodo.

__

Corro per arrivare sulla Freeway 105, e non hanno neanche finito ancora di costruirla, e che cazzo, perché no? Rido mentre sfreccio davanti ai cartelli dei cantieri e su per una rampa che finisce nel cielo con un sacco di travi di ferro che spuntano e non c’è neanche l’asfalto. Un bel posto per parcheggiare, amico. È mia questa strada qui sopra, come se l’avessero costruita proprio per me. Tengo gli occhi a nord sui punti di fuoco e un fungo di fumo talmente grande che riempie tutto il cielo. È nero dappertutto, come se fosse venuto buio presto. Non riesco a vedere le San Gabriel Mountains. Non vedo Downtown. Non vedo una sega.
Però vedo più di quello che ho visto tutto il giorno. E un po’ mi sento come se fossi stato dentro un sottomarino per ore, a guardare da uno di quei Perry scoppi, ma adesso so che sono in superficie e apro il portello e guardo fuori.
È anche tranquillo. Più tranquillo di quello che penseresti. Non sento nemmeno le sirene.
Di traffico non ce n’è. Da qui si vede la 710 e non succede niente. Non passa nessuno. Il che vuol dire che il momento migliore per guidare a L. A. È quando sta andando a fuoco. Trovo questa cosa ridicola da matti! Ancora più ridicolo è che da queste parti giornate così capitano ogni vent’anni.
Perché in questa città quando si tratta di messicani sappiamo tutto di quei tizi con le giacche lunghe che venivano picchiati a sangue dai marinai bianchi e dai marines e roba così. Tutti hanno uno zio con una bella storia da raccontare. Quando sono state le rivolte di Zoot Suit, nel 1944, più o meno? Qualcosa del genere. Quindi quella stronzata era tutta questione di razza. Era semplice, tipo: vedi uno con la pelle scura con l’aria elegante, e insieme ai tuoi fratelli bianchi gli fai passare la voglia di fare lo splendido. Gli dai addosso perché è vestito meglio di te, hai capito?
Dopo tutti si voltano a guardare e fanno (con la mia miglior voce da bianco del notiziario): «Accidenti, è stato terribile, davvero spaventoso, una cosa simile non dovrebbe accadere mai più».
Però poi se ne dimenticano, e si dimenticano anche di aver pensato che era sbagliato, e per un po’ non succede niente, ma neanche niente viene sistemato, solo la rabbia monta, pronta per esplodere un’altra volta, ed è allora che succedono i fatti di Watts, doveva essere a metà degli anni Sessanta, perché non c’è uno zio vecchio come il cucco che non continui a menarla anche su quella storia lì. (Io non mi intendo troppo di famiglie… merda, non so niente di famiglie, ma sembra che i giovani non ascoltino mai. Io invece li ascolto sempre i vecchi. Magari non sembra che ascolto, invece sì. Magari non faccio esattamente quello che dicono, però sento. Li sento. Le mie orecchie non si spengono mai, amico.)
E poi dopo Watts è andato tutto come prima, giusto? Tutti si voltano a guardare e fanno: «Accidenti, è stato terribile, una cosa simile non dovrebbe succedere mai più» e la cosa pazzesca è che questa volta dicono sul serio, ma sicuramente non si ricordano della volta prima, e continua a non cambiare niente.
E niente è cambiato da allora. Quindi quant’è? Vent’anni tra una rivolta razziale e l’altra? Abbastanza perché tutti abbiano dimenticato un’altra volta, giusto? Perché adesso è il millenovecentonovantadue e ne sono passati quanti? Una trentina, tipo? Forse un po’ meno. È lo stesso. Da come sta bruciando, era ora.
Questa storia è come un prestito in banca. Con gli interessi.
E forse le cose che dico le capisco solo io, ma scriviti questa cosa. O sottolineala. Come vuoi tu.
Se un giorno L. A. muore, se tutta la gente si stufa e se ne va, incidi questo sulla sua pietra tombale del cazzo…
Los Angeles ha la memoria corta. Non impara mai niente.
Ed è questo che la distruggerà. Sta’ a vedere. Ci saranno altre rivolte razziali nel 2022. O anche prima, non so.
Merda. 
Aspetta un momento. 
Mi viene in mente adesso che non dovrei andare troppo in giro quassù perché potrebbe crollare o qualcosa del genere. Mi giro sul sedile e guardo il sacchetto con i soldi, poi faccio un grande sorriso. Penso all’eroina e all’erba mentre infilo un’altra volta l’unghia nella cocaina e me la passo sulle gengive come un dentista, poi faccio inversione e scendo giù dalla rampa.
Fa paura in certi punti questa rampa di merda, sembra friabile! Quando tocco terra capisco che ho bisogno di tornare all’albergo. Devo nascondere bene la roba. I soldi e il resto.
E c’è un’altra cosa da dire su L. A. È grande come non so cosa ma gli abitanti stanno nei loro ghetti. Ci sono interi ghetti dove si parla soltanto spagnolo o etiope o quel che è.
È come se ogni razza fosse un pugile all’angolo, e quando succede così, quando hai questa mentalità, è facile vedere tutti gli altri come degli avversari, qualcuno da battere perché se non lo fai non ottieni la tua parte. Non ti becchi il premio, capito?
E forse è tutto qui, come si dice, in sostanza.
Prendi un sacco di gente da tutte le parti del mondo, li sbatti nei loro ghetti e non gli permetti di mescolarsi né di capirci niente, e tutti hanno in testa solo di competere, perché, merda, chiunque a L. A. È sempre in lotta contro tutti e tutto.
Aspetta, dov’ero arrivato? Merda.
Amico, questo mal di testa del cazzo mi fa ammattire. Tipo che mi fa così male che mi sento battere il cuore in testa. Bumbum. Bum-bum. Pesco ancora nella mia bellezza bianca e questa volta me la metto sotto la lingua. Il sapore è quello di quando ho dovuto mandare giù delle aspirine senz’acqua, solo peggio. Più amara. Faccio un respiro profondo dal naso, cercando di riempire i polmoni ben bene prima di espirare e buttare fuori il sapore.
Quindi, be’, come dicevo, ci saranno altre storie come questa nel 2022. Aspetta e vedrai.
Se dipendesse da me, comunque, nel ’22 sarebbero i robot contro gli esseri umani.
Perché così almeno ci dovremmo coalizzare tutti insieme e amen. Porca puttana. Mi piacerebbe esserci per vedere anche questa. Sarebbe una specie di Terminator 2 Il giorno del giudizio. Potremmo davvero spararci l’L. A. River a tavoletta con le moto e un autotreno!
Sì.
Mi sembra un’idea fantastica, forse perché il mal di testa mi sta passando e adesso ho come tutto un formicolio nei denti, cazzo.

©Ryan Gattis, ©Guanda, 2016. Tutti i diritti riservati.

***

Il romanzo Giorni di fuoco sarà presentato da Ryan Gattis e dallo scrittore Giacomo Papi alla libreria Verso di Milano il 16 marzo 2016 alle 19. Giovedì 17 marzo Gattis lo presenterà alla scuola Holden di Torino.