Le confessioni degli innocenti

Bloomberg sui sospettati di "Making a Murderer" e sul perché interrogatori lunghi e pesanti possono spingere a confessare il falso

di Faye Flam - Bloomberg

Il corridoio tra le sale interrogatori di una vecchia sede della Stasi, la polizia della Germania Est. (ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)
Il corridoio tra le sale interrogatori di una vecchia sede della Stasi, la polizia della Germania Est. (ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)

Qualche anno fa un professore di economia sostenne coraggiosamente che la pratica medievale dell’ordalia (una prassi giuridica che consisteva nel sottoporre l’imputato a prove particolarmente dolorose per determinare se era colpevole o meno) “funzionava” perché era più probabile che un innocente prendesse in mano un ferro incandescente o immergesse le mani nude in olio bollente rispetto a un colpevole: un vero innocente avrebbe pensato che Dio lo avrebbe salvato.

Nonostante sia meno brutale, anche la manipolazione psicologica impiegata dagli Stati Uniti nelle indagini penali potrebbe “essere efficace” per strappare confessioni. Sempre più dati scientifici però sostengono che le strategie attualmente accettate non sarebbero utili per scoprire la verità. La recente diffusione di massa delle registrazioni degli interrogatori – come quelle contenute nel documentario di Netflix Making a Murderer –  mostra come non sempre le confessioni siano un atto di pentimento spontaneo motivato dalla necessità di pulirsi la coscienza. Gli interrogatori possono rappresentare un’esperienza traumatica, e le confessioni possono essere indotte grazie a una combinazione di pressione psicologica, inganno e semplice sfinimento.

A quest’ultimo fattore si è interessata la psicologa Elizabeth Loftus, un’esperta di memoria famosa per aver dimostrato l’inaffidabilità della testimonianza oculare. Loftus si è chiesta quanto incidesse il fatto che la maggior parte degli interrogatori si svolge tra mezzanotte e le otto del mattino, e che in alcuni casi possono durare per diverse ore. Insieme ad alcuni ricercatori del laboratorio del sonno della Michigan State University, Loftus e i suoi colleghi hanno condotto un esperimento per capire se la privazione del sonno rendesse i soggetti più inclini a confessare il falso. I risultati sono stati pubblicati lunedì 8 febbraio sulla rivista Proceedings of the National Academy of Sciences.

Per lo studio è stato chiesto a 88 studenti di completare dei questionari e fare alcuni test al computer, avvisandoli in modo esplicito che premendo il tasto ESC sulla tastiera avrebbero eliminato tutti i preziosi dati dei ricercatori. Dopo aver comunicato che lo studio si occupava privazione del sonno e memoria, i ricercatori hanno chiesto agli studenti di tornare la settimana successiva per trascorre la notte in laboratorio. A metà degli studenti è stato concesso di dormire, mentre l’altra sarebbe dovuta rimanere sveglia tutta la notte. Le persone del secondo gruppo sono state monitorate, e potevano studiare, guardare la televisione o fare giochi con il personale del laboratorio. La mattina dopo i ricercatori hanno rivelato a tutti i soggetti che erano stati osservati, e che qualcuno li aveva visti premere il tasto ESC la settimana prima. La metà esatta degli studenti che non avevano dormito, 22, ha confessato alla prima sessione di interrogatori, e altri dieci alla seconda. Purtroppo i ricercatori non avevano predisposto un meccanismo per scoprire quante persone avessero davvero premuto il tasto. In ogni caso è improbabile che qualcuno possa averlo fatto per errore, dal momento che si trova in un angolo della tastiera. I ricercatori hanno dovuto fidarsi e partire dal presupposto che in pochi avrebbero premuto il tasto di proposito.

Se lo studio ha davvero avuto a che fare con casi di confessioni false, allora potrebbe essere utile per spiegare perché il fenomeno è così comune. Secondo le stime, le false confessioni sarebbero responsabili del 15-25 per cento delle condanne ingiuste. Una confessione è considerata una prova così schiacciante che in alcuni casi nemmeno il test del DNA è sufficiente ad annullare la sentenza. Come nel caso di Juan Rivera, condannato nel 1992 per lo stupro e l’omicidio di un’undicenne di Chicago. Rivera aveva inizialmente negato ogni coinvolgimento nel caso, ma durante un lungo interrogatorio aveva poi firmato una confessione. Il New York Times Magazine aveva descritto l’interrogatorio:

Seguirono 24 ore quasi ininterrotte di interrogatorio. Intorno alle 11.30 del 30 ottobre, dopo aver dato un colpo con la testa contro un muro della cella ed essersi strappato una ciocca di capelli, Rivera, ammanettato dietro la schiena e con le catene alle gambe, ha finalmente fornito agli investigatori una confessione dettagliata.

Successivamente Rivera raccontò di avere avuto un “black out” e di non ricordarsi di aver firmato la confessione. Quando finalmente fu analizzato il DNA trovato sul corpo della ragazzina, fu scoperto che non corrispondeva a quello di Rivera. La confessione fu però considerata così schiacciante che durante il secondo processo l’accusa riuscì a convincere la giuria che la ragazzina di undici anni doveva aver fatto sesso con un’altra persona poco prima di essere stuprata e uccisa. Rivera fu incarcerato di nuovo, prima di essere scagionato nel 2012.

Nel caso di Brendan Dassey, uno dei due sospettati interrogati in Making a Murderer, non c’erano prove di innocenza così convincenti. Molti tuttavia non credono che Dassey abbia partecipato all’omicidio per cui sta scontando la pena. Secondo Adam Benforado, autore del libro Unfair: The New Science of Criminal Injustice (“Ingiusto: la nuova scienza dell’ingiustizia criminale”), in ogni caso non è questo il punto. Benforado ha detto di aver visto di recente le scene della confessione del documentario, in cui Dassey – che ha un quoziente intellettivo di 70, piuttosto basso – appare stressato e confuso. «Non so se Brendan è davvero innocente», ha detto Benforado, «ma di sicuro le tecniche usate dalla polizia sono pessime». Benforado ha raccontato di non essersi reso conto di quanto la polizia fosse autorizzata a usare l’inganno prima di diventare professore di giurisprudenza: gli agenti possono far credere ai sospettati di essere stati inchiodati da impronte digitali o testimoni oculari inesistenti, o di non aver superato il test della macchina della verità.

Immaginate di essere un sospettato e che qualcuno vi dica che ci sono delle prove contro di voi, dice Benforado. Se confessate, sconterete una condanna di due anni. Se però fate resistenza, ne passerete in carcere 25. Quando a lezione Benforado ha presentato la scelta ai suoi studenti molti hanno detto che confesserebbero. Vista così, confessare il falso non è una scelta irrazionale. Alcuni di noi lo farebbero senza bisogno di passare una notte insonne.

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