Perché le banche italiane vanno così male

La Cina e il prezzo del petrolio c'entrano solo fino a un certo punto: hanno grossi problemi con i "crediti deteriorati" – cioè? – e non è chiaro come saranno risolti

(Marco Secchi/Getty Images)
(Marco Secchi/Getty Images)

La banca italiana Monte dei Paschi di Siena ha perso oggi in borsa il 14,37 per cento, proseguendo una discesa nel valore del titolo iniziata giovedì scorso, ma più in generale tutte le principali banche italiane da giorni vanno male in borsa: le azioni Unicredit oggi hanno chiuso con una perdita del 3,46 per cento ma sono arrivate a perdere circa l’8 per cento intorno a mezzogiorno; Banca Popolare ha perso il 6,30 per cento e anche Ubi Banca e Banca Carige hanno subìto perdite considerevoli.

In questi giorni molte borse nel mondo stanno registrando perdite, principalmente per il crollo del prezzo del petrolio e per il rallentamento dell’economia cinese, ma il crollo delle banche italiane è una questione distinta, che grava ulteriormente sulla borsa di Milano: i titoli delle banche pesano infatti molto sul FTSE MIB, il principale indice di Milano; in Italia se le cose vanno male per le banche, quindi, è facile che vadano male per la Borsa in generale. Inoltre in Italia le aziende si rivolgono normalmente alle banche per finanziare i propri progetti – anziché ai mercati finanziari, emettendo obbligazioni o prodotti simili – e questo lega ancora di più l’andamento delle imprese con quello delle banche in borsa.

Buona parte del crollo di oggi è dovuto alla notizia secondo cui lunedì la Banca Centrale Europea (BCE) avrebbe informato alcune di queste banche italiane che avvierà delle indagini sui cosiddetti “non performing loans” (crediti deteriorati), dei prestiti effettuati dalle banche per i quali – semplificando – le possibilità che vengano ripagati sono poche. Questa notizia ha spaventato gli investitori, facendo crollare il valore dei titoli delle banche, fino a quando la BCE non ha specificato che si tratta di normali controlli, effettuati o in corso di effettuazione su varie banche europee per valutare quali strategie intraprendere per risanare il sistema bancario in generale. Dal primo gennaio è in vigore un cosiddetto sistema di “bail in” che prevede siano gli azionisti e anche alcuni tipi di obbligazionisti – e non gli Stati – a far fronte a eventuali aumenti di capitale necessari per colmare le perdite delle banche.

La situazione delle banche italiane rimane comunque preoccupante, in particolare perché non è stata ancora decisa una linea da seguire per la soluzione ai crediti deteriorati: in Italia questi particolari tipi di credito sono il 16,7 per cento (350 miliardi di euro) degli impieghi totali delle banche, cioè di tutte le risorse che le banche possiedono sotto forma di investimento o comunque non in forma “liquida”. In Spagna quella percentuale è il 7 per cento del totale, in Francia il 4 per cento. Un’idea che circola è costituire un’unica “bad bank”, una scatola vuota che esista soltanto per tenere in pancia le perdite e vendere i crediti inesigibili a società specializzate nel recuperarne almeno una parte. Le istituzioni europee invece vedono questa ipotesi con timore che possa risultare in un aiuto di Stato mascherato (contrario al principio di libertà del mercato) e quindi preferiscono l’istituzione di tante “bad bank” diverse, una per ogni istituto.

Come scrive Marco Ferrando sul Sole 24 Ore, il problema riguarda anche i mancati obiettivi di ristrutturazione di alcune banche: da circa un anno il Monte dei Paschi, per esempio, dopo un ingente aumento di capitale – deteriorato nel crollo in borsa degli ultimi mesi – cerca un partner bancario con cui effettuare una fusione, senza successo. Anche la ristrutturazione delle banche popolari non sembra essere andata troppo avanti. Il nuovo meccanismo di “bail in” rende molto più rischioso investire in queste banche senza prima vedere segnali di ripresa: si rischia di essere costretti a partecipare a un aumento di capitale e quindi, alla fine della fiera, perdere dei soldi.