Cosa fare perché il guaio delle banche serva a qualcosa

Ferdinando Giugliano su Repubblica spiega perché il governo non poteva fare altro, ma ha sbagliato a scaricare le responsabilità sull'Europa

(Lo Debole/Bianchi/LaPresse)
(Lo Debole/Bianchi/LaPresse)

Ferdinando Giugliano scrive oggi un editoriale sulla prima pagina di Repubblica in cui si occupa del discusso decreto con cui il governo ha salvato dal fallimento quattro piccole banche. Giugliano sostiene che non si potesse fare molto altro, e che le alternative proposte dalle opposizioni sarebbero state “impraticabili all’interno del perimetro concordato con la Commissione”, “miopi ed inique”, ma che il governo ha sbagliato a “scaricare la colpa del provvedimento sull’Europa”. Per evitare che i cittadini vengano raggirati o comunque non adeguatamente informati sui rischi dei loro investimenti, Giugliano suggerisce che gli organi di vigilanza affidino le loro indagini interne a un esperto straniero, “meglio se proveniente da un paese al di fuori della zona euro”.

Giugliano ha trent’anni: quello di oggi è il suo primo articolo su Repubblica, dopo aver lavorato come editorialista al Financial Times. Nel 2013 ha scritto con Feltrinelli il libro Eserciti di carta, un saggio sull’informazione in Italia e i suoi guai.

Il clamore per la vicenda delle quattro banche salvate il mese scorso grazie a un decreto del governo è a prima vista difficile da conciliare con l’importanza che le stesse ricoprono all’interno dell’economia nazionale.
I quattro istituti — Banca Etruria, Banca Marche, Cari-Chieti e CariFerrara — possiedono appena l’1 per cento degli asset bancari italiani. Il costo dell’operazione, interamente fronteggiato da privati, è intorno ai 4 miliardi di euro, soltanto il 2,5 per mille del nostro prodotto interno lordo. I risparmiatori coinvolti — e che hanno visto i propri investimenti azzerati — sono secondo alcune stime circa 140.000, meno di un italiano su 400.
Queste cifre esigue nascondono però la reale portata economica e politica dell’intervento. Il provvedimento va a toccare il risparmio privato, uno dei pilastri forti della malmessa economia italiana e un vero tabù per l’elettorato. Il coinvolgimento degli investitori scoperchia i rischi che un sistema del credito vulnerabile presenta per i cittadini, minandone la fiducia verso le banche e i regolatori.
Infine, lo scontro tra il governo di Matteo Renzi e la Commissione Europea sulla responsabilità delle misure contribuisce ad alimentare quel senso di perdita di sovranità che da anni spinge l’elettorato nelle braccia dei partiti euroscettici.

Il paradosso è che il decreto appare nelle sue linee guida come un ragionevole compromesso fra tre vincoli: la dura realtà della finanza pubblica italiana; le nuove regole concordate con Bruxelles per limitare la socializzazione delle perdite bancarie; e le ragioni della politica che deve, ove possibile, tenere conto dell’impatto di misure drastiche anche su alcune minoranze, in questo caso gli obbligazionisti ordinari, salvati da risorse provenienti da altre banche e grazie a una garanzia della Cassa Depositi e Prestiti.
Le alternative proposte dalle opposizioni — improvvisamente riscopertesi a favore dei salvataggi pubblici dopo averli criticati per anni — non sono solo impraticabili all’interno del perimetro concordato con la Commissione, ma risultano anche miopi ed inique.

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