• Libri
  • Martedì 29 dicembre 2015

Charlotte Brontë e la lotta di classe

Secondo lo storico Lucio Villari, "Shirley" – il suo romanzo meno famoso – racconta la rivoluzione industriale molto meglio di Charles Dickens

Una protesta del Partito Comunista inglese nel 1925 a Londra.
(Topical Press Agency/Getty Images)
Una protesta del Partito Comunista inglese nel 1925 a Londra. (Topical Press Agency/Getty Images)

Lo storico Lucio Villari spiega su Repubblica l’importanza di Shirley, il secondo – e meno noto – romanzo della scrittrice inglese Charlotte Brontë, nel descrivere in modo lucido e illuminante la rivoluzione industriale inglese e la nascita della lotta di classe a inizio Ottocento. Secondo Villari il romanzo è molto più calzante delle “patetiche descrizioni sociali” di Charles Dickens, e infatti venne citato dall’economista inglese William Henry Beveridge in epigrafe alla sua famosa relazione del 1942, che pose le basi della riforma dello stato sociale britannico nel Dopoguerra.

La miseria genera l’odio”: è l’epigrafe scelta da Lord William Beveridge per presentare all’attenzione degli inglesi una “Relazione sulla piena occupazione in una società libera”. Il titolo diceva tutto. Dopo quello del 1942, mentre la guerra dilagava nel mondo, dedicato alla protezione e sicurezza sociale, era questo il secondo Piano Beveridge voluto dal governo conservatore di Winston Churchill per predisporre i programmi della ricostruzione postbellica, a cominciare dal lavoro e dall’occupazione. La prefazione di Beveridge alla Relazione aveva la data di giugno 1944, quando gli Alleati erano appena sbarcati in Normandia e liberato Roma. Ma nelle librerie di Londra arrivavano racchiusi in un volume di oltre seicento pagine, un messaggio di pace, di giustizia sociale e la speranza di un “futuro assolutamente nuovo. Nasceva infatti il Welfare State. «Debbo a mia moglie – scriveva Beveridge nella prefazione – la citazione che appare nel frontespizio. Essa è tratta da quello che Charlotte Brontë, nel secondo capitolo di Shirley, dice dei tessitori su telai a mano, i quali centoventicinque anni fa furono portati alla disoccupazione e ad una miserevole rivolta dall’introduzione dei telai meccanici per maglieria. È questo il mio testo fondamentale. Il male maggiore della disoccupazione non è fisico ma morale; non il bisogno che essa può generare, ma l’odio e il timore che alimenta. Così come il male maggiore della guerra attuale non è fisico ma spirituale: non le distruzioni delle città e l’uccisione delle persone, ma il pervertimento di tutto quello che costituisce la parte migliore dello spirito umano, per servire a scopi di distruzione, di odio, di crudeltà, di inganno e di vendetta».

Continua a leggere su Cinquantamila giorni