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  • Martedì 6 ottobre 2015

I capelli di Harold Roux

È un romanzo che contiene un altro romanzo, parla di scrittori, personaggi e del complicato rapporto tra memoria e fantasia

La copertina del romanzo di Thomas Williams
La copertina del romanzo di Thomas Williams

Thomas Williams è uno di quegli scrittori che in vita non sono mai stati molto famosi, ma sono stati adorati da altri scrittori, anche famosissimi. Nel caso di Thomas Williams tra i suoi fans ci sono Stephen King, Joseph Heller, John Irving, che fu suo studente all’Università del New Hampshire dove Williams insegnò per la maggior parte della sua vita, e Andre Dubus III, che ha scritto l’introduzione al suo romanzo The Hair of Harold Roux, pubblicato postumo nel 2011 da Doubleday e appena pubblicato in italiano da Fazi. Nel 1975 I capelli di Harold Roux di Thomas Williams – che era nato nel 1926 a Duluth, in Minnesota ed è morto nel 1990 – vinse il National Book Award, battendo in finale Philip Roth, Vladimir Nabokov, Toni Morrison e Donald Barthelme. Due anni prima il premio era stato vinto da John Edward Williams, l’autore di Stoner, altro romanzo amato dagli scrittori, che in Italia è sempre pubblicato da Fazi, ed è stato un caso letterario postumo.

“I capelli di Harold Roux” del titolo sono un particolare laterale: il parrucchino di un tipo che ha perso i capelli durante la Seconda guerra mondiale. Il protagonista del romanzo è Aaron Benham, insegnante di letteratura inglese in un’università del New England, che sogna di scrivere – come in molti altri innumerevoli romanzi americani – un grande romanzo, intitolato appunto I capelli di Harold Roux. Non ci riesce perché la realtà quotidiana continua a interferire: la moglie torna con la spesa, c’è il bagagliaio da scaricare, e i figli adolescenti hanno le loro esigenze. E poi ci sono i ricordi di giovinezza che riaffiorano e ricominciano a farsi sentire, come in ogni crisi di mezza età che si rispetti. Solo che i ricordi di Benham – che poi forse sono quelli di Williams – riaffiorano sotto forma di romanzo, confondendosi con le vicende di Allard, il secondo protagonista, il personaggio al centro del romanzo nel romanzo, che ha vent’anni ed è appena tornato dalla guerra, corteggia Mary, che è ingenua middle class, ma si struscia con Noemi, che è borghese comunista, e vorrebbe tanto diventare scrittore, esattamente come Aaron Bentham e come Harold Roux, il suo rivale con il parrucchino, ed esattamente come Thomas Williams.

“Thomas Williams era uno scrittore meraviglioso”, ha detto Stephen King in un’intervista all’Atlantic, “Scrisse un romanzo intitolato I capelli di Harold Roux, uno dei miei libri preferiti, su uno scrittore di nome Aaron Benham. Benham dice che quando si siede per scrivere un libro è come se si trovasse su una pianura buia con un fuocherello minuscolo. E qualcuno arriva e si avvicina al fuoco per scaldarsi. E poi arriva altra gente. E quelli sono i personaggi del tuo libro, e il fuoco è la tua ispirazione”.

Qui c’è un estratto del libro. La traduzione è di Nicola Manuppelli e Giacomo Cuva.

***

Aaron è di nuovo dietro la scrivania, con la tazza di caffè nero in mano. D’improvviso la posa, raggiunge l’angolo dello studio e afferra un fucile – il metallo freddo e nero racchiuso dal calcio in legno di noce, il lungo otturatore, argentato dallo scorrere sull’asse della canna per gli oltre cinquant’anni della sua esistenza. È stato costruito nel gennaio del 1918, per una guerra d’altri tempi, ormai ricordata solo da qualche sopravvissuto. Fra le braccia di Aaron il fucile diventa parte di lui, parte della sua umanità. Perché altrimenti quell’arma si sarebbe evoluta al punto da adattarsi a spalla, braccia e occhi con tanta perfezione, fino a diventare persino comoda? Eredità delle generazioni, lenta trasformazione da miccia e archibugio a quell’armonioso strumento della sua cultura.
Già, la sua cultura. Non riesce a credere di essere un professore. Aaron Benham, professore dai delicati ragionamenti? Risata isterica in sottofondo. Non elencare le tue convinzioni, perché, sostanzialmente, sono tutte bugie. Non sei la persona razionale e delicata di cui conoscono la faccia. Uno scatto di là da quella linea ed ecco l’omicidio farsi strada nel tuo cuore. Hai sempre posseduto un’arma. Dondoli in continuazione le spalle come il tipico americano arrogante, e hai sempre adorato il gelo del conflitto. Cristo! Se soltanto potesse avere degli amici, dei nemici che non fosse costretto a capire. Non ne può più di ragionare, è stanco di dover convincere. Il professore ne ha abbastanza di spiegare.

Rimette il fucile nella sua nicchia. È come se gli avesse irrobustito il braccio e sottratto qualcosa al cervello. Vuole pensare soltanto alla purezza del meccanismo di quell’arma, che fa piazza pulita di tutte le paradossali difficoltà che comporta l’essere un membro della sua razza.

«I CAPELLI DI HAROLD ROUX», c’è scritto sul quaderno davanti a lui. Ma è solo un titolo. Il resto della sua creazione svanisce in una vasta pianura in lontananza, fra nebbia e oscurità. Per lui questo romanzo, prima ancora che assumesse una prima, zoppicante struttura, era una scena ambientata in quella pianura buia, con i personaggi intorno a un minuscolo fuoco che incide di luce calda i contorni dei volti. Mentre la luce sembra svanire per sempre, le montagne lontane diventano azzurre e fredde come la luna. Deve costantemente ricreare quel minuscolo fuoco,altrimenti quelle ultime, calde vite non ci saranno più, non avranno mai vissuto, nemmeno per temere l’immensità del freddo e dell’indifferenza che le circonda. Lo Zero Assoluto è in attesa, sempre. In paradossologia forse è proprio quello il nome di Dio.

C’è una poesia che vuole scrivere, intitolata A una zecca intrappolata nel ghiaccio. I versi rimasti incompleti lo perseguitano.

…la sinapsi
deve contenere in piccolo la concezione
della concezione del calore
e quindi, nei suoi sempre piccoli incrementi,
un’era secca e una glaciale.

Rispetto allo Zero, il minuscolo esoscheletro dell’acaro, che la calotta di ghiaccio spessa oltre un chilometro della Groenlandia protegge dalla nostra inevitabile stupidità, è il nostro antenato caldo, la nostra unica speranza perché possano tornare senso dell’umorismo, grazia e amore. Quando, guardandosi indietro, non si riesce a trovare nella triste storia della razza nemmeno un episodio in cui la vanità non sia stata scavalcata neppure dalla sopravvivenza, allora si tende a cercare disperatamente un amico, che magari avrà la presunzione di illustrare alla zecca nel ghiaccio le possibilità di evoluzione selettiva fino al raggiungimento della coscienza della propria mortalità, quell’oscura consapevolezza da cui deriva ogni gioia e buonumore.

Ma potrebbe anche non farlo. Mentre pensa di conficcare la matita nel quaderno per vedere quante pagine la punta di grafite riesce a trafiggere, squilla il telefono.
No. Non risponderà. Non risponderà, afferma dentro di sé, ma i suoi arti traditori gli fanno lasciare la scrivania e lo portano all’ingresso, occupato abusivamente da quel folle apparecchio urlante.
«Aaron?», dice un’altra voce preoccupata sull’orlo del pianto. Ma questa volta è Helga Buck, la moglie del suo amico. «Aaron, so che stai lavorando…». Ha una voce profonda, ansimante come quella di un cantante degli anni Cinquanta di cui non riesce a ricordare il nome.
«Che succede, Helga?».
«È per via di George»‚ dice.
Sembra che Helga sia a corto di fiato, lui compulsivamente le offre il suo. «Che problema ha?».
«È fuori, in giardino. È giù di corda, Aaron, parecchio giù di corda. Non è che potresti fare un salto qui? Lo so che stai lavorando, non dovrei nemmeno chiedertelo.
Cioè, supplicarti. Dio santo, non so…».
«Ma certo, Helga».
«Voglio dire, a colazione ho detto non so che – forse ho citato il Corps of Engineers – e lui è andato in bagno, credo abbia vomitato».
«Va bene, cercherò di tirarlo su di morale»‚ dice Aaron. «Mi conosci. Sprizzo di gioia».
Riesce a strapparle una risatina. «Aaron, non dirgli che ti ho chiamato, ok?».
«Va bene, Helga, certo».
«Grazie, Aaron. Grazie». Quando riaggancia è riconoscente, quasi allegra, il che lo fa sentire nobile, o qualcosa di simile. Non riesce a pensare ai propri sentimenti, anche perché è esasperato da George Buck. George non finisce la tesi di dottorato. Il preside e il dipartimento gli hanno dato una scadenza, deve farsela approvare dal consigliere della Brown entro fine agosto, o l’anno prossimo sarà l’ultimo. Se non riuscirà a finirla, dovrà fare fagotto e trasferirsi da qualche altra parte con moglie e brillante figlio di sette anni, Edward, al seguito. Ma è quasi impossibile trovare cattedre decenti. Aaron ha qualche difficoltà a spiegarsi questa procrastinazione. Un po’ la capisce, forse persino parecchio. Neanche lui è estraneo all’accidia, ma di certo non a scapito del lavoro e della casa. Per quanto riguarda i Buck la casa, la vecchia e amata dimora, ha assunto un ruolo che va ben oltre le considerazioni materiali.

George e Helga hanno comprato un antico casale settecentesco, sbilenco e quasi irrimediabilmente deformato e infossato, e con sudore e pazienza gli hanno ridato forma e solidità. Da quella specie di ammasso marcio e sprofondato sono riusciti a cancellare i segni del tempo, e insieme al prato verde tutto intorno lo hanno riportato all’antico splendore, restituendogli la forma immaginata e realizzata dagli amorevoli costruttori nell’A.D. 1749. Aaron sa che la casa è profondamente – spaventosamente, a dire il vero – parte della continuità della vita di George. Per George ha la funzione che per altri hanno le droghe o l’alcol. A volte capita che, nel bel mezzo di una conversazione, Aaron colga lo sguardo di George cercare tranquillità e soddisfazione osservando le antiche travi tagliate a mano, enumerando le benedizioni rimaste in quella fredda maestria.

Ma nei quattro anni che ci sono voluti per rimettere in sesto la vecchia casa, George ha trascurato la tesi – una bomba a orologeria capace di mandare in frantumi quella fatica, avrebbe dovuto saperlo.
Ma se n’è reso davvero conto o no? Le razionalizzazioni prodotte dalle menti più brillanti possono diventare talmente sottili da superare l’umana comprensione.
«Maledizione!», urla Aaron mentre torna alla scrivania per lasciare un biglietto alla moglie. Sconvolto com’è, si ritrova a scrivere qualcosa di impertinente.

Cara Agnes,
SOS da Helga, quindi uscito per confortare George. Evviva! Non devo scrivere! E poi sono pazzo, senza ombra
di dubbio, ma niente paura: il Cielo protegge i pazzi.

Con interi canestri
di concupiscenza,
A.

 

© 2015 Fazi Editore , Roma