«L’onorevole morte dei cento milioni»

Il 15 agosto del 1945 il Giappone si arrese e in migliaia eseguirono gli ordini di quello che avrebbe dovuto essere il più grande suicidio di massa nella storia

di Davide Maria De Luca – @DM_Deluca

(AP Photo)
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Il 15 agosto del 1945 l’imperatore del Giappone si rivolse per la prima volta direttamente al suo popolo e in un messaggio radiofonico annunciò la resa agli Alleati. La Seconda guerra mondiale era ufficialmente terminata, ma non tutti i giapponesi appresero con sollievo la fine di quattro anni di bombardamenti, privazioni e sofferenze. La propaganda diffusa dalla fanatica leadership militare aveva preparato il popolo giapponese a quella che era chiamata «l’onorevole morte dei cento milioni», un suicidio di massa in cui l’intero popolo giapponese sarebbe dovuto morire per evitare l’umiliazione della resa.

L’imperatore trasmise il suo storico discorso intorno a mezzogiorno, sei giorni dopo il bombardamento di Nagasaki. Il paese era allo stremo e da almeno tre anni aveva perso ogni possibilità di ottenere una pace negoziata con i suoi nemici: per convincere il governo militare ad accettare la resa c’erano volute due bombe nucleari, una dichiarazione di guerra dell’Unione Sovietica e le pressioni dello stesso imperatore, una figura considerata semi-divina anche se con pochi poteri effettivi. Nella notte tra il 14 e il 15 agosto, tuttavia, il tenente Kenji Hatanaka, 33 anni, e altri cospiratori tentarono di compiere un colpo di stato occupando il palazzo imperiale per impadronirsi dei nastri con la registrazione del discorso prima che fosse trasmesso. Per tutta la notte Hatanaka interrogò i funzionari imperiali minacciandoli con una spada da samurai per farsi rivelare dove fossero nascoste le registrazioni. Hatanaka e i suoi uomini erano un gruppo isolato e furono rapidamente neutralizzati, ma le loro idee erano così diffuse negli ambienti militari giapponesi che alcuni loro colleghi avevano studiato dei piani per portare al suicidio l’intera nazione.

Il moderno esercito giapponese, nato alla fine dell’Ottocento durante la rapida modernizzazione del paese, era imbevuto dell’ideologia cavalleresca degli antichi samurai. Ne aveva dato dimostrazione in occasione della guerra russo-giapponese del 1904-05 e durante la Prima guerra mondiale, rispettando i prigionieri di guerra e comportandosi nobilmente con i propri avversari. Quando negli anni Venti il Giappone cominciò ad essere governato da una successione di regimi militari sempre più autoritari – il periodo noto come “Tennosei-fashizumu”, o “fascismo del sistema imperiale” – il codice dei samurai divenne qualcosa di più di un semplice codice di condotta per ufficiali-gentiluomini. Gli ideali cavallereschi del “bushido”, l’antico codice dei samurai, furono estremizzati e trasformati nell’ideologia fanatica che di lì a poco avrebbe prodotto i kamikaze, i famosi piloti suicidi della marina e dell’esercito giapponese. L’idea della “morte onorevole”, presente in tutte le culture cavalleresche, fu trasformata in una macabra e totale devozione e nell’orrore per la resa. Quando nel dicembre del 1941 il Giappone attaccò Pearl Harbour, questi nuovi ideali erano stati inculcati in una nuova generazione di ufficiali fanatici, gli stessi che avrebbero tentato di rapire l’imperatore nella notte del 14 agosto e che negli anni precedenti avevano assassinato ministri e generali considerati “poco patriottici”.

I primi a sperimentare cosa significava in pratica questa nuova ideologia furono i prigionieri di guerra alleati, catturati a decine di migliaia nei primi anni di successi militari del Giappone. I prigionieri furono quasi ovunque trattati con una brutalità selvaggia: aver gettato le armi li aveva resi automaticamente indegni di ogni rispetto. Si calcola che circa un quarto di tutti i prigionieri occidentali catturati dai giapponesi siano morti durante la loro custodia. Per i prigionieri asiatici, come i cinesi, il tasso fu probabilmente diverse volte più alto. Molto presto gli alleati scoprirono che i giapponesi applicavano anche a loro stessi il medesimo tasso di brutalità. I primi sospetti emersero nel 1942, quando dopo la conquista delle Filippine l’esercito giapponese liberò alcuni prigionieri catturati dagli americani all’inizio della campagna. I soldati di truppa furono distribuiti in varie unità, come a voler far dimenticare la loro esistenza. Gli ufficiali, invece, si suicidarono o furono costretti a suicidarsi fino all’ultimo, per fare ammenda del disonore di essere stati catturati vivi. Mano a mano che le fortune della guerra volgevano a sfavore del Giappone, questi gesti divennero un’inquietante normalità. Quando nel luglio del 1944 gli americani conquistarono l’isola di Saipan, più di mille civili giapponesi, insieme a quasi tutti i militari della guarnigione, si suicidarono gettandosi dalle scogliere dell’isola. Quattro mesi dopo l’ammiraglio Takijirō Ōnishi propose la creazione di uno speciale corpo aereo che avrebbe avuto il compito di schiantarsi contro le navi americane. Entro la fine della guerra, circa quattromila giovani piloti giapponesi sarebbero morti nelle operazioni “kamikaze”.

La devozione alla morte non era un patrimonio soltanto dei piloti di aerei e migliaia di fanti seguirono il loro esempio nel corso delle battaglie per la conquista delle isole del Pacifico. A Iwo Jima e Okinawa gli americani presero prigionieri soltanto poche decine di giapponesi, rispetto alle decine di migliaia che difendevano le isole. Tutti gli altri si suicidarono caricando le mitragliatrici americane armati solo di spade e bastoni o facendosi saltare in aria stretti alle proprie bombe a mano nei cunicoli sotterranei. Questa determinazione fanatica fu una delle molte giustificazioni che gli americani utilizzarono per spiegare l’utilizzo della bomba atomica. Soltanto un’arma dal potere distruttivo inimmaginabile, scrissero in molti all’epoca, poteva risparmiare agli Stati Uniti il sanguinoso compito di conquistare le isole del Giappone fanaticamente difese da milioni di militari e decine di milioni di civili pronti a morire.

I timori americani trovavano un corrispettivo nei discorsi fatti negli ultimi giorni di guerra dai più fanatici tra i militari giapponesi, quelli che ritenevano che suicidarsi fosse il dovere di ogni suddito dell’imperatore. I piani per la difesa del Giappone nell’estate del 1945 prevedevano misure di una follia demenziale. Donne, bambini e anziani avrebbero dovuto essere armati di lance di bambù e mandati all’attacco degli americani. Bombe volanti di legno pilotate da ragazzini quattordicenni, per risparmiare sul peso, avrebbero dovuto essere trasportate sulle colline e quindi catapultate contro le forze di invasione. Dove non fosse stato possibile organizzare una qualche forma di difesa, la popolazione avrebbe dovuto semplicemente suicidarsi, come avevano fatto un anno prima i civili di Saipan. In quei giorni, il diario ufficiale del quartier generale delle forze armate giapponese riportava: «L’unica via che rimane al Giappone è che i suoi cento milioni di abitanti sacrifichino le loro vite caricando il nemico per fargli perdere la volontà di combattere».

Nelle sue memorie, il regista giapponese Akira Kurosawa, che all’epoca aveva 35 anni, ricorda che a quel piano la propaganda aveva dato un nome poetico e popolare: «L’onorevole morte dei cento milioni». Quando fu annunciato il messaggio dell’imperatore, in molti credettero che fosse arrivato il momento: il paese non poteva più continuare a combattere, quindi l’intera nazione giapponese avrebbe dovuto scomparire per evitare il disonore della resa. Kurosawa ricordò che la mattina del 15 agosto i negozianti aspettavano seduti in strada occhieggiando le sciabole da samurai in vendita nelle loro vetrine. Poi l’imperatore parlò, in un giapponese arcaico ed elaborato che, come ha ricordato un articolo su Linkiesta, non fu compreso immediatamente da tutti gli ascoltatori. Ma i più istruiti colsero le parti più importanti: il popolo giapponese doveva deporre le armi e questo significava, ricorda ancora Kurosawa, che non ci sarebbero dovuti essere suicidi di massa.

Non sapremo mai fino a che punto il popolo giapponese sarebbe stato pronto a portare avanti i piani suicidi della sua leadership. Probabilmente molto meno di quanto speravano i generali. In ogni caso, molti di loro furono fedeli fino alla fine al loro folle codice d’onore. Poche ore dopo l’annuncio, ad esempio, l’ammiraglio Matome Ugaki, 55 anni, salì su uno degli aerei al suo comando stringendo in mano una sciabola da samurai per compiere un’ultima missione suicida. Il pilota dell’aereo protestò e Ugaki acconsentì a farlo salire insieme a lui, stringendosi nella cabina dell’aereo monoposto. Ugaki e il suo compagno di viaggio insieme a tutti gli altri aerei dello squadrone furono abbattuti pochi minuti dopo. Poche ore prima, il tenente Hatanaka, l’ufficiale che aveva guidato il fallito colpo di stato, si suicidò insieme agli altri cospiratori con un colpo di pistola alla testa davanti al Palazzo Imperiale. Il giorno successivo cento marinai morirono quando uno di loro fece esplodere una grossa carica di esplosivo in uno dei depositi della base. Pochi giorni dopo la resa, l’allora primo ministro giapponese Hideki Tojo cercò di suicidarsi per evitare l’arresto sparandosi al cuore. Tojo si era opposto al piano della “onorevole morte” e fu impiccato nel 1948 dopo aver chiesto scusa per le atrocità compiute del Giappone. La notte stessa della resa anche Onishi, l’inventore dei kamikaze, si uccise. Intorno alle tre di notte si aprì il ventre con la sua spada da ufficiale, secondo l’antico e doloroso rituale suicida dei samurai. La sua agonia durò fino alle 18 del giorno dopo – secondo alcuni testimoni Onishi aveva cercato di ritardare la morte tagliandosi con una spada poco affilata. Nella sua ultima lettera chiese scusa ai familiari dei piloti kamikaze e lasciò la sua ultima poesia:

Limpida e fresca, la luna ora splende
dopo la spaventosa tempesta