Salman Rushdie sulla «libertà di parola, ma…»

Lo scrittore condannato a morte dall'ayatollah Ruhollah Khomeini ha scritto che non ha più voglia di ascoltare chi fa dei distinguo quando si parla di libertà di espressione

Sabato 17 gennaio, Repubblica ha pubblicato un breve commento di Salman Rushdie, scrittore di origine indiana naturalizzato britannico, riguardo il dibattito sull’attacco subito dal settimanale satirico francese Charlie Hebdo e sulla libertà di parola.

Sono stufo di questo dannato gruppo del “ma” e quando sento qualcuno dire “sì credo nella libertà di parola, ma…”, smetto di ascoltare.”Credo nella libertà di parola, ma la gente dovrebbe comportarsi bene”. “Credo nella libertà di parola, ma non dobbiamo offendere nessuno”. “Credo nella libertà di parola, ma cerchiamo di non andare troppo lontano”. Il punto è che se si limita la libertà di parole non è più libertà di parola.

Giovedì 15 gennaio, papa Francesco aveva detto ai giornalisti durante un viaggio in aereo che la libertà di espressione è un diritto fondamentale, ma deve essere esercitata «senza offendere».

Salman Rushdie è uno dei più noti scrittori in lingua inglese del mondo. Da più di 25 anni vive sotto scorta a causa di una condanna a morte emanata nei suoi confronti dall’ayatollah Ruhollah Khomeini, leader politico e religioso dell’Iran fino al giugno del 1989. La condanna a morte, espressa sotto forma di fatwa, cioè una sentenza emessa da un’autorità religiosa vincolante per ogni musulmano, venne motivata dal fatto che Rushdie aveva scritto un libro, “I versetti satanici”, in cui era accusato di prendersi gioco della religione musulmana. In molti ritengono che l’uccisione del traduttore giapponese del libro e il ferimento del traduttore italiano e dell’editore norvegese (avvenuti nel corso degli anni Novanta) sia collegati proprio alla fatwa.