Come è guarito dall’HIV il paziente di Berlino?

Timothy Ray Brown è l'unica persona conosciuta ad avere sconfitto il virus che causa l'AIDS e potrebbe essere la chiave per trovare una cura alla malattia

di Jon Cohen - The Washington Post

Secondo un nuovo studio, alcuni scienziati sono vicini a scoprire in che modo Timothy Ray Brown, l’unico essere umano conosciuto a essere guarito da una infezione da HIV, sia sopravvissuto al virus. Sebbene lo studio non fornisca una risposta definitiva alla domanda, permette di escludere una delle ipotesi circolate più a lungo sul tema. Quello di Brown rimane tra i casi più studiati nella storia dell’AIDS: lui è statunitense ma per un po’ di tempo ha vissuto a Berlino (è noto ai ricercatori col nome di “paziente di Berlino”). Nel 2006, dopo aver vissuto col virus per 11 anni e aver controllato l’infezione con farmaci antiretrovirali – che cioè tengono la quantità di virus presente nel corpo al di sotto di una certa soglia – gli fu diagnosticata una forma acuta di leucemia mieloide (malattia non collegata con il virus dell’HIV). La chemioterapia non riuscì a curarlo, e l’anno successivo Brown ricevette il primo di due trapianti di midollo – una cura comune per casi del genere – e sospese gli antiretrovirali.

Di solito, quando i malati di AIDS smettono di prendere questo tipo di farmaci, la presenza del virus nel loro organismo aumenta notevolmente nel giro di poche settimane. Eppure, gli scienziati che nel corso degli ultimi anni hanno studiato il sangue di Brown hanno trovato solo poche tracce del virus, che oltretutto sembra non essere più in grado di moltiplicarsi.

Ora i ricercatori hanno individuato le tre possibili cause che hanno permesso al corpo di Brown di sbarazzarsi – in maniera indipendente o combinata – del virus. La prima è stata la distruzione del sistema immunitario attraverso la chemioterapia e le radiazioni, necessarie per preparare il paziente al trapianto di midollo osseo. La seconda è stata la decisione dell’oncologo Gero Hütter di rivolgersi a un donatore di midollo con una rara mutazione genetica che portava il suo organismo a indebolire un recettore presente nei globuli bianchi, che il virus dell’HIV sfrutta per diffondere l’infezione. La terza potrebbe essere stata l’attacco delle cellule del nuovo sistema immunitario nei confronti di quelle vecchie, infettate dal virus: un processo conosciuto come “malattia del trapianto contro l’ospite” (GVHD).

Nel corso di un nuovo studio, uno staff guidato dall’immunologo Guido Silvestri della Emory University di Atlanta ha condotto un interessante esperimento su alcune scimmie per sperimentare l’efficacia di questi tre fattori. I trapianti di midollo funzionano soprattutto grazie alle cellule staminali. Le tecniche moderne evitano che il midollo del donatore sia “aspirato via”: riescono a trattare il sangue del donatore ed estrarre le cellule staminali, per poi permettere loro di “attecchire” nel corpo del ricevente.

Per prima cosa, quindi, gli scienziati hanno estratto il sangue da tre macachi (Macaca mulatta) e ne hanno ricavato le cellule staminali. Hanno poi infettato gli animali e altre tre scimmie con un virus ibrido – noto come SHIV – che contiene componenti che fanno parte sia del virus umano sia del corrispondente dell’HIV per le scimmie. A tutti e sei gli animali, poi, sono stati somministrati farmaci antiretrovirali: come ci si aspettava, il livello del virus SHIV nel sangue è calato notevolmente, arrivando al di sotto della soglia di rilevazione dei comuni test.

Alcuni mesi dopo, i tre macachi ai quali era stato estratto il sangue sono stati sottoposti a un trattamento con radiazioni e ad alcune infusioni delle loro stesse cellule staminali. Dopo che le cellule hanno attecchito – un processo che può durare alcuni mesi – i ricercatori hanno sospeso gli antiretrovirali in tutti e sei gli animali. I livelli di presenza del virus sono schizzati di nuovo in alto in tutte e cinque le scimmie sopravvissute (in una delle scimmie i livelli non sono mai alti, ma ha avuto una malattia ai reni e le è stata praticata l’eutanasia).

Lo staff che ha condotto l’esperimento ha pubblicato il suo lavoro sul magazine PLOS Pathogens lo scorso mese, concludendo che il processo, da solo, non permette di espellere il virus dell’HIV dal proprio corpo. Silvestri ha spiegato che l’esperimento «non sarà replicato in alcun modo sugli esseri umani».

Daniel Kuritzkes, un medico dell’ospedale Brigham & Women di Cambridge, in Massachusetts – che non ha avuto un ruolo nella ricerca di Silvestri – ha detto che quello di Silvestri è «uno studio importante, e un modello molto utile». Kuritzkes e alcuni suoi colleghi sono molto interessati all’esperimento di Silvestri perché due loro pazienti infetti da HIV e malati di leucemia avevano ricevuto un trapianto di midollo da pazienti che non avevano un patrimonio genetico ostile al virus. Per alcuni mesi successivi all’interruzione degli antiretrovirali, la presenza del virus nel sangue era rimasta molto bassa, generando la speranza che la resistenza genetica del donatore non avesse un ruolo nella riduzione della presenza del virus. I livelli del virus, però, erano tornati ad aumentare in entrambi i pazienti dell’ospedale. Kuritzkes sospetta che sia lo stesso trapianto a ridurre la presenza dell’HIV nel corpo, ma che il virus non perda la capacità di riprodursi, sconfiggendo anche il nuovo sistema immunitario.

Lo studio, invece, sebbene escluda che la sola distruzione del sistema immunitario possa produrre l’espulsione del virus dell’HIV, lascia aperta la possibilità che sia stata la “malattia del trapianto contro l’ospite” ad avere un ruolo decisivo nel processo di cura di Brown. A differenza di Brown e dei due pazienti di Kuritzkes, alle scimmie dell’esperimento di Silvestri è stato iniettato il loro stesso sangue, fattore che non ha causato la malattia del trapianto contro l’ospite. Silvestri ha detto che «alla fine, può essere questa la scoperta notevole». Silvestri pensa anche di poter ridurre ulteriormente la presenza del virus nelle scimmie trattando l’infezione con gli antiretrovirali per un periodo più lungo di qualche mese. Silvestri conta di potere fare ancora esperimenti sulle scimmie, sperimentando diverse variabili incluso il trapianto da animali che hanno una resistenza genetica simile alle cellule trapiantate in Brown.

Steven Deeks, un medico e ricercatore che ha avuto in cura Brown, ha detto che «i migliori studi scientifici sono quelli che producono un eguale numero di domande e risposte. Sfortunatamente, gli sforzi eroici profusi in questo studio non sono riusciti a darci una risposta definitiva circa la condizione del paziente di Berlino. Il metodo ha bisogno di essere perfezionato, e come minimo sarà necessario trattare i macachi con gli antiretrovirali per un periodo più lungo. Ma sono sicuro che lo staff di Silvestri troverà una soluzione».

Foto: Timothy Ray Brown, il “paziente di Berlino”, a una conferenza stampa nel 2012
(T.J. Kirkpatrick/Getty Images))

© The Washington Post 2014