La ricaduta della bambina “curata” dall’HIV

Due anni fa il virus che causa l'AIDS era stato reso "non rilevabile" con una terapia innovativa, ma ora la bambina oggetto del caso è di nuovo infetta

Una bambina statunitense del Mississippi che si pensava fosse stata curata dal virus dell’HIV – che causa la sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS) – grazie a un trattamento molto aggressivo con farmaci poco dopo la nascita, nel 2010, ha mostrato ora i primi segnali di un ritorno dell’infezione dovuta al virus. Per i medici che avevano somministrato le terapie, e per l’intera ricerca di una cura contro l’AIDS, è un duro passo indietro. Si stima che solo nel 2012 le persone che hanno contratto l’HIV siano state almeno 2,3 milioni, 260mila di queste erano bambini appena nati infettati alla nascita o poco tempo dopo.

Hanna B. Gay, la pediatra del Centro Medico dell’Università del Mississippi di Jackson che si era occupata delle terapie per la bambina, ha detto che la scoperta del ritorno dell’infezione è stata “come ricevere un pugno allo stomaco”. Gay aveva trattato la bambina con dosi massicce di antiretrovirali, i farmaci che servono per impedire a un virus di replicarsi e di fare avanzare la malattia, dopo circa 30 ore dalla sua nascita, con una procedura che di solito non viene seguita con questi metodi. Fu disposta la somministrazione di tre farmaci, e non due come avviene di solito, senza attendere altri test per non perdere tempo, esami che avrebbero potuto confermare con maggiore certezza la presenza di una infezione da HIV. La madre della bambina non sapeva di essere infetta, lo si scoprì con una serie di test di routine mentre era ricoverata in ospedale per il parto.

A oggi chi ha il virus dell’HIV non può essere curato, cioè non può guarire completamente dall’infezione. L’assunzione regolare di farmaci permette comunque di tenere sotto controllo la malattia, evitando nella maggior parte dei casi che causi seri danni al sistema immunitario, accorciando le aspettative di vita.

Seppure poco ortodosso, il trattamento eseguito con grande tempismo portò a una riduzione delle quantità del virus nell’organismo della bambina, fino a rendere l’HIV non rilevabile a un mese dalla somministrazione dei farmaci. I risultati furono incoraggianti anche un anno e mezzo dopo, con l’impossibilità di rilevare la presenza del virus che causa l’AIDS. Nei mesi seguenti, la madre smise di dare i farmaci alla bambina e non si presentò più in ospedale per i controlli per qualche tempo. Tornò cinque mesi dopo e i ricercatori condussero nuovi test immaginando di trovare un alto livello virale nel sangue, ma con loro sorpresa gli esami si rivelarono tutti negativi. Ne furono eseguiti altri, per precauzione e ulteriore verifica, ottenendo gli stessi risultati.

Una serie di esami più accurati permise di rilevare alcune tracce genetiche delll’HIV, ma incomplete e quindi insufficienti per permettere al virus di replicarsi. All’epoca si era ipotizzato che i farmaci dati nelle prime ore di vita avessero fermato la creazione di una riserva nascosta virale nella bambina. Semplificando, l’HIV si mantiene spesso in uno stato dormiente in aree nascoste degli organismi che ha infettato, zone irraggiungibili dai farmaci. Se trova la strada libera, in assenza di farmaci, emerge e inizia a replicarsi causando seri danni all’organismo. Da tempo diversi ricercatori teorizzano che con un trattamento farmacologico adeguato, nei primissimi tempi dopo il contagio, sia possibile impedire al virus di creare le sue riserve nascoste e di conseguenza fermare la malattia.

Il problema è che negli adulti la presenza dell’HIV viene di solito rilevata in seguito alla comparsa dei primi sintomi, e quindi quando è ormai troppo tardi. Nei neonati si pensava che Gay e colleghi avessero dimostrato che le cose potevano essere più semplici perché se il virus fosse stato rilevato nelle prime ore di vita sarebbe stato possibile avviare da subito una terapia d’urto che lo portasse praticamente a scomparire.

La scoperta del virus nella bambina sembra contraddire quanto ipotizzato negli ultimi anni dai ricercatori. La ricerca Deborah Persaud, che partecipò allo studio scientifico sui sistemi per fermare il virus nei neonati, ha ricordato che il caso della bambina del Mississippi ha comunque portato a un risultato senza precedenti: per due anni l’HIV è rimasto fermo dopo l’interruzione della somministrazione dei farmaci; di solito dopo un paio di settimane senza medicinali torna a replicarsi velocemente.

I primi risultati ottenuti grazie al caso nel Mississippi avevano indotto i medici a pianificare una serie di test clinici in diverse parti del mondo, che avrebbero dovuto coinvolgere circa 450 bambini, ai quali somministrare una terapia con i tre farmaci già usati per la bambina. Se dopo 48 settimane nei bambini con HIV non fosse stata riscontrata la presenza del virus, la terapia sarebbe stata interrotta per verificare se effettivamente il virus fosse stato fermato prima di avere il tempo di creare le sue riserve nelle cellule infettate. Nessun bambino fino a ora era stato comunque selezionato per il test clinico, che alla luce degli ultimi risultati sul caso del Mississippi subirà probabilmente nuovi ritardi. Lo scorso marzo era stato segnalato un altro caso di bambina “curata” dal virus che causa l’AIDS, seppure tra qualche scetticismo all’interno della comunità scientifica.

Dagli esami condotti sulla bambina del Mississippi, che ora ha 4 anni, è emerso che la concentrazione del virus è pari a 16mila copie per millimetro cubico di sangue. Un indicatore inequivocabile di una ricaduta e del ritorno dell’infezione. La bambina è ora sottoposta ai classici cicli di farmaci per contrastare il virus, e come milioni di altre persone, probabilmente dovrà continuare ad assumerli per il resto della sua vita, salvo nei prossimi decenni non sia trovata una cura per la malattia.

Foto: Hanna B. Gay, la pediatra del Centro Medico dell’Università del Mississippi di Jackson che si era occupata delle terapie per la bambina (AP Photo/ University of Mississippi Medical Center, Jay Ferchaud)