• Sport
  • Giovedì 5 giugno 2014

Che fine fanno le maglie celebrative delle squadre che perdono il Super Bowl

La NFL le regala a un'associazione umanitaria che le distribuisce nei paesi poveri (con più danni che benefici, dicono alcuni)

of the in Sewickley, Tuesday, Feb. 5, 2008. (AP Photo/Keith Srakocic)
of the in Sewickley, Tuesday, Feb. 5, 2008. (AP Photo/Keith Srakocic)

Lunedì 2 giugno Adam Paul, studente di un seminario cristiano statunitense, ha postato sui propri account di Twitter e Instagram le foto di alcuni scatoloni pieni di magliette celebrative della squadra di football americano dei Denver Broncos. Sulle magliette c’è scritto “VINCITORI DELLA 48ESIMA EDIZIONE DEL SUPER BOWL”: le maglie sono state stampate più di quattro mesi fa in vista della possibile vittoria di Denver nella finale della National Football League (NFL) – il Super Bowl per l’appunto – giocata il 2 febbraio del 2014 contro i Seattle Seahawks. Il fatto è che quella partita fu vinta da Seattle per 43-8 (e fu la prima vittoria dei Seahawks nella loro storia).

 

La spiegazione
Negli Stati Uniti è pratica comune stampare migliaia di magliette, cappelli e bandiere celebrativi per entrambe le squadre che si giocano il Super Bowl, di modo che i negozi che li vendono abbiano a disposizione tutto immediatamente dopo la partita. Da anni, la NFL ha un accordo che prevede lo smaltimento del merchandising ufficiale della squadra che perde – quindi ormai invendibile – tramite l’organizzazione umanitaria cristiana World Vision (di cui Adam Paul dice di far parte), che lo distribuisce in paesi come Mongolia, il Ciad e Nicaragua. Non si tratta di un accordo unico di questo genere: un anno dopo le elezioni presidenziali statunitensi del 2012, le magliette per la campagna presidenziale di Mitt Romney circolavano ancora molto in un villaggio del Kenia al quale erano state donate.

NFL e World Vision si sono accordate per la prima volta nel 1996. Negli anni, World Vision ha stipulato accordi simili con le principali leghe americane di baseball, hockey e pallacanestro. Nel 2011, tramite un post del suo blog, l’organizzazione ha spiegato nel dettaglio come funziona il processo:

La NFL stampa in anticipo maglie e cappellini celebrativi per entrambe le squadre che giocano la finale. I negozi di abbigliamento sportivo delle città delle due squadre ordinano i pezzi in anticipo. […] Quando il materiale è pronto, viene spedito al centro di distribuzione del rivenditore, che lo manda ai singoli negozi che lo conservano nei propri magazzini fino alla fine della partita: subito dopo espongono negli scaffali il merchandising della squadra vincente. Qui subentra World Vision. Tutto il materiale della squadra che ha perso viene rispedito al centro di distribuzione, conteggiato e donato a noi: il tutto arriva nel nostro centro di distribuzione a Pittsburgh, in Pennsylvania, dove viene nuovamente conteggiato e diviso per taglia, genere e destinazione – significa che una maglietta a maniche corte potrebbe essere spedita a un paese con un clima caldo, mentre una felpa a un paese come la Mongolia, dove fa freddo.

Nel 2007, per esempio, il materiale celebrativo dei Chicago Bears – che persero il torneo per 29 a 17 contro gli Indianapolis Colts – fu spedito in Romania e Ciad. Nel 2010, le persone coinvolte nel terremoto di Haiti ricevettero le magliette degli stessi Indianapolis Colts, battuti quell’anno 31-17 dai New Orleans Saints.

In questo modo, spiega un articolo del magazine PolicyMic, «ci guadagnano tutti, almeno superficialmente: i vestiti sono mandati in posti dove servono, mentre le leghe sportive sono in grado di fare una donazione deducibile dalle tasse».

Qualche critica
Già negli scorsi anni alcuni osservatori hanno però criticato questa pratica: nel 2011 la giornalista Cathleen Falsani scrisse sullo Huffington Post che secondo molti «le donazioni della NFL saturano il mercato locale con beni di consumo non richiesti, facendo abbassare i prezzi ai quali i commercianti del posto vendono la merce, rendendoli non sostenibili». All’epoca Jeffrey Wright, il capo della divisione operativa di World Vision – organizzazione fondata nel 1950 che impiega circa 44mila persone in 97 paesi – disse che le accuse sul tema all’organizzazione «vanno prese necessariamente sul serio: stanno sollevando delle questioni giuste. Abbiamo davvero bisogno di usare ogni risorsa a nostra disposizione per rendere il miglior servizio possibile».