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  • Martedì 18 marzo 2014

La storia di Rick Reamisch

Il nuovo responsabile delle carceri del Colorado che si è sottoposto volontariamente al regime di isolamento, dopo che il suo predecessore era stato ucciso da un ex detenuto

Georgia Valentine, an intern with the legal Services for Prisoners with Children, hangs a poster calling for the reform in the use of solitary confinement in California prisons during a demonstration at the Capitol in Sacramento, Calif., Wednesday, Oct. 9, 2013. Members of the Assembly and Senate public safety committees held the first of several joint hearings in response to a massive inmate hunger strike this summer protesting conditions for gang leaders held in solitary confinement at Pelican Bay State Prison and three other state prisons.(AP Photo/Rich Pedroncelli)
Georgia Valentine, an intern with the legal Services for Prisoners with Children, hangs a poster calling for the reform in the use of solitary confinement in California prisons during a demonstration at the Capitol in Sacramento, Calif., Wednesday, Oct. 9, 2013. Members of the Assembly and Senate public safety committees held the first of several joint hearings in response to a massive inmate hunger strike this summer protesting conditions for gang leaders held in solitary confinement at Pelican Bay State Prison and three other state prisons.(AP Photo/Rich Pedroncelli)

Lo scorso 23 gennaio Rick Raemisch, nuovo responsabile del sistema carcerario del Colorado che gestisce 20 carceri e un totale di circa 20 mila detenuti, ha trascorso 20 ore nella cella di isolamento di una prigione di Cañon City, capoluogo della Contea di Fremont, per provare in prima persona l’esperienza di un carcerato in isolamento. Da quel giorno la storia di Raemisch, quella (tragica) del suo predecessore Tom Clements e gli obiettivi che entrambi hanno cercato di raggiungere hanno fatto tornare di attualità il dibattito sull’isolamento nelle carceri degli Stati Uniti.

Rick Reamisch ha raccontato il suo esperimento in un articolo del New York Times intitolato “Una notte in isolamento”, concludendo che l’isolamento è una pratica «controproducente e disumana». Reamisch ha spiegato di essere stato nominato responsabile del sistema carcerario in Colorado con tre obiettivi principali: limitare o eliminare l’uso dell’isolamento per i detenuti malati di mente; rispondere alle esigenze di coloro che sono stati in isolamento per lunghi periodi; ridurre il numero di coloro che vengono rilasciati passando direttamente e senza transizione da una condizione di isolamento alla libertà.

«Se dovevo realizzare questi obiettivi avevo bisogno di capire meglio che cosa si prova in isolamento e che cosa vivono i prigionieri che sono ospitati in quelle celle, a volte per anni».

Alle 18.45 del 23 gennaio Reamisch si è volontariamente sottoposto a un regime di isolamento, suscitando le reazioni più diverse: c’è chi ha parlato di una «bravata politicamente motivata», chi di «sfida positiva per gli amministratori carcerari di altri stati» e chi – come il guardiano Travis Trani, che ha accolto Reamisch nel penitenziario – ha pensato semplicemente  che «fosse un pazzo» ma che andasse «ammirato per voler fare quell’esperienza». Dice Reamisch:

«Sono stato consegnato a un penitenziario statale del Colorado, dove mi è stata rilasciata un’uniforme da detenuto e un sacchetto a rete con i miei articoli per il bagno e la biancheria per il letto. Le mie braccia sono state ammanettate dietro la schiena, le mie caviglie chiuse con delle catene e sono stato posto in isolamento. La mia cella, la numero 22, era al secondo piano, alla fine di quella che sembrava essere una camminata molto lunga. Nella cella gli agenti mi hanno rimosso le catene alle caviglie, hanno chiuso la porta alle mie spalle lasciando l’apertura sulla porta aperta. Mi è stato detto di farci passare dentro le mani in modo che le manette potessero essere rimosse. E poi sono rimasto solo».

Ai detenuti condannati al regime di isolamento cui si è sottoposto Reamisch non è permesso tenere con sé nulla. La stanza è grande circa 4 metri per 2 e quel poco che c’è dentro (il letto, il wc, il lavandino) sono in acciaio e avvitati al suolo:

«La prima cosa che si nota è che la situazione è tutt’altro che tranquilla: si tratta di un ambiente in cui si percepiscono rumori confusi, televisori a tutto volume di altri reclusi, conversazioni lontane, grida. Non riuscivo a dare un senso a niente di tutto ciò e mi è venuta una sensazione di nervosismo e paranoia. Mi aspettavo che le luci si spegnessero, per segnalare la fine della giornata. Ma le luci non si spengono. Ho cominciato a contare i piccoli fori scavati nelle pareti. Solchi molto piccoli realizzati dai detenuti»

Reamisch cita lo psichiatra Terry Küpers, che in un articolo del 2013 ha descritto i numerosi effetti psicologici della detenzione solitaria, precisando che i prigionieri hanno raccontato di avere incubi, palpitazioni, paura di imminenti esaurimenti nervosi, fantasie aggressive, problemi di controllo degli impulsi, sintomi psichiatrici che in quasi tutti i casi analizzati nessuno aveva precedentemente manifestato. Reamisch dice che già per una mente sana tutte queste circostanze «sono scoraggianti» e che chiaramente l’isolamento non risolve un problema, piuttosto lo ritarda o, più probabilmente ancora, lo aggrava. E «non solo all’interno della prigione, ma in ultima analisi, nella comunità. Il nostro lavoro di correzione è proteggere la comunità, non liberare persone che sono peggiori di quanto fossero prima di essere imprigionate».

Reamisch prosegue poi nel racconto della sua giornata. Alle 6.15 gli è stata portata la colazione:

«Mi sono lavato i denti, la faccia, ho fatto due serie di flessioni e mi sono rifatto il letto. Ho guardato la piccola finestra della cella, ho visto che era ancora buio e ho pensato: e adesso? Avrei dovuto passare un totale di 20 ore in quella cella. Che, rispetto al soggiorno medio, è praticamente un battito di ciglia. I detenuti che vengono inviati in isolamento in Colorado vi trascorrono di media 23 mesi. Alcuni ci passano anche 20 anni. Alla fine, ho rotto una promessa che mi ero fatto e ho chiesto a un agente che ora fosse. Le 11.10: mi sentivo come se fossi rimasto lì per giorni. Mi sono seduto a pensare. Quanto tempo ci sarebbe voluto prima che l’isolamento venisse eliminato completamente?».

Ed è a questo punto del racconto che Reamisch spiega la storia del suo predecessore: Tom Clements, un «riformatore coraggioso». Clements aveva già fatto molto per ridurre l’uso eccessivo dell’isolamento nelle prigioni del Colorado (che ha i tassi più alti di tutti gli Stati Uniti): in poco più di due anni lui e il suo staff l’avevano tagliato di oltre la metà passando da 1505 detenuti a 726. Ma Clements aveva appena cominciato il suo lavoro quando è stato assassinato. Nel marzo del 2013, «in una tragica ironia», Clements è infatti stato ucciso da Evan S. Ebel, membro di una banda criminale, che era stato rilasciato poco prima direttamente dal regime di isolamento. Questo ex detenuto ha prima ucciso un uomo addetto alle consegne della pizza per indossare la sua uniforme e spingere Clements ad aprire la porta di casa. Pochi giorni dopo quello stesso uomo è stato ucciso in una sparatoria con la polizia: «Qualunque cosa sia stata fatta durante l’isolamento di quell’ex detenuto e assassino, non è stata fatta per il suo miglioramento». L’obiettivo di Clements era aiutare i detenuti, «e il fatto che fosse stato ucciso da un detenuto era per me un insulto».

In Colorado, nel 2012, 140 persone sono state rilasciate direttamente da una condizione di isolamento, l’anno scorso 70 e nel 2014, al momento in cui Reamisch scriveva per il New York Times, due. Il suo programma per i prossimi mesi è molto ambizioso: non solo ridurre l’isolamento in generale, ma farvi ricorso per un periodo di tempo determinato e non indefinito («i detenuti dovrebbero sapere quando ne usciranno», ha detto). Infine, offrire ai detenuti un periodo di preparazione prima del rilascio e modificare il modo in cui gli agenti interagiscono con loro.