La strage del mercato di Sarajevo, 20 anni fa

La prima delle due che avvennero durante l'assedio della città: perché fu un momento di svolta sia nel racconto della guerra che nella sua gestione diplomatica

Durante l’assedio di Sarajevo, cominciato il 5 aprile 1992, l’opinione pubblica europea e mondiale assisteva agli aggiornamenti continui: fu seguito dai mezzi di comunicazione come nessun’altra operazione di guerra prima di allora. Ma nella copertura che i media fecero della guerra, e nella reazione degli stessi paesi occidentali, ci furono però alcuni episodi che ebbero tanto risalto da diventare veri e propri momenti di svolta: sia nel racconto della guerra che nella gestione diplomatica del conflitto. Uno dei principali fu la prima delle due stragi che avvennero al mercato di Markale, nel centro storico di Sarajevo, il 5 febbraio 1994. Vent’anni fa.

Prima della guerra Sarajevo era una delle città dall’aspetto più orientale che si potesse trovare in Europa, ed era una meta turistica famosa per i suoi caffè, le sue moschee e i mercati. Quello di Markale, nella parte più antica della città, lungo la trafficata via Maresciallo Tito, era formato da file e file di tavoli metallici ed era spesso molto affollato. Grazie ai tunnel scavati sottoterra per sfuggire ai colpi dei cecchini e dell’artiglieria, anche durante la guerra vi si poteva trovare ancora un po’ di tutto – ortaggi freschi provenienti dai dintorni, vestiti di seconda mano e apparecchi elettrici – in una città che per molta parte era un cumulo di rovine. Il 5 febbraio, un sabato, intorno alle 12.10 un proiettile di mortaio calibro 120 millimetri, sparato dalle colline che circondavano la città e dove operava l’artiglieria serba comandata dal generale Ratko Mladic, colpì in pieno il mercato. 68 persone morirono e oltre 140 rimasero ferite.

I media occidentali ripresero subito la notizia presentando la strage come “la peggiore dall’inizio del conflitto”, che proseguiva da quasi due anni. Le immagini del mercato devastato e dei corpi fatti a pezzi, mentre auto private facevano la spola tra la piazza e l’ospedale di Kosevo cariche di feriti, arrivarono subito sulle tv internazionali, mentre la responsabilità dell’accaduto veniva data per lo più ai serbo-bosniaci che circondavano la città. Nello stesso giorno a Sarajevo si doveva tenere un incontro tra i serbo-bosniaci, i croati e i musulmani per discutere la possibilità di demilitarizzare la città.

(attenzione: il video contiene immagini forti)

Il governo bosniaco, formato prevalentemente da musulmani, accusò subito i serbi del bombardamento. Il presidente bosniaco Alija Izetbegovic tenne una conferenza stampa in cui disse: «Questo è un giorno nero e terribile per la gente della Bosnia e Erzegovina. Siamo condannati a morte, ci è negato il diritto di difenderci. Coloro che ci privano del diritto di autodifesa saranno complici di questo crimine». Il riferimento era all’embargo nella consegna di armi a tutte le parti in conflitto che era stato deciso dalle Nazioni Unite. Il New York Times riportò che era un sentimento molto diffuso, tanto che alcuni cittadini di Sarajevo al mercato di Markale avevano gridato ai giornalisti stranieri: «È stato il mondo», «Tutto il mondo ha ucciso queste persone» e «Grazie Clinton, grazie Boutros Ghali» [allora segretario dell’ONU]. Da parte loro, i serbi dissero che erano stati gli stessi musulmani a sparare sul mercato, dato che, secondo quanto disse il ministro dell’Informazione dell’autoproclamata Repubblica Serbo-Bosniaca, «i serbi non uccidono civili».

La reazione dell’ONU – presente a Sarajevo con la Forza di Protezione delle Nazioni Unite, UNPROFOR – fu ugualmente rapida, anche se portò a prime conclusioni incerte e discordanti. Nell’arco di poche ore dalla strage vennero fatte tre indagini indipendenti sul luogo della strage: nessuna, tuttavia, poté stabilire in via definitiva da dove fosse arrivato il colpo di mortaio. Una delle indagini incluse nel rapporto la possibilità che fossero state le forze musulmane a sparare sulla popolazione di Sarajevo; più tardi un’indagine più approfondita scoprì un errore di calcolo che aveva portato a quella conclusione. Ma la versione, anche se smentita anni dopo dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia e da ulteriori perizie negli anni successivi, è alla base delle ricostruzioni secondo cui il governo musulmano-bosniaco avesse colpito la sua stessa gente per aumentare la pressione sulla comunità internazionale.

A essa si aggiunsero voci di un misterioso rapporto segreto delle Nazioni Unite che attribuiva la responsabilità ai musulmani, in realtà mai venuto alla luce. Quello che poteva causare qualche dubbio era il fatto che il mercato fosse circondato da edifici molto alti, motivo per cui era ritenuto un luogo al riparo dai bombardamenti, e che per colpirlo di proposito fosse necessario bersagliarlo in modo molto preciso. Un altro motivo di sospetto era la grande velocità con cui le immagini della strage erano arrivate a network occidentali come BBC, il che poteva far pensare a un evento in qualche modo previsto. Il rapporto conclusivo dell’ONU sulla vicenda, datato 14 febbraio e annunciato due giorni più tardi, concluse solo che la ricostruzione della traiettoria permetteva di stabilire la zona di origine del proiettile in un’area di due chilometri quadrati e mezzo, in cui si trovavano sia posizioni serbe che musulmano-bosniache.

Ad ogni modo i maggiori network internazionali diedero da subito molto più credito alla versione della responsabilità serba, che fu confermata dalle sentenze contro due generali serbi, Dragomir Milošević e Stanislav Galić. Nel gennaio 2003, i due vennero processati e condannati dal Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia – rispettivamente a 33 anni di carcere e all’ergastolo – per l’assedio di Sarajevo e i crimini contro l’umanità commessi durante di esso, tra cui le due stragi del mercato di Markale. Ma la convinzione da parte di molti serbi che l’attacco sia stato portato avanti dagli stessi musulmani bosniaci non è scomparsa, ed è stata ripetuta anche nel 2010 dall’ex leader serbo Radovan Karadžić durante il suo processo all’Aja per genocidio e crimini di guerra.

Nel contesto della guerra, la strage aumentò le pressioni sui musulmani bosniaci e sui croati perché smettessero di combattersi tra loro nel resto del paese e si unissero per rispondere ai serbo-bosniaci. Meno di una settimana dopo la strage, il segretario generale delle Nazioni Unite Boutros Boutros-Ghali chiese alla NATO di intervenire, ma gli Stati Uniti non intendevano dare subito una risposta militare contro i serbi senza che ci fossero prove chiare contro di loro. Il 10 febbraio la NATO diede ai serbo-bosniaci dieci giorni di tempo per ritirare l’artiglieria ad almeno 20 chilometri di distanza da Sarajevo oppure consegnarla alle Nazioni Unite: in caso contrario sarebbero cominciati attacchi aerei contro le loro posizioni. I bombardamenti della città diminuirono di intensità, alcuni pezzi di artiglieria pesante vennero spostati dai dintorni di Sarajevo e la NATO, per il momento, non diede seguito alle minacce.

Solo poche settimane più tardi, nell’aprile del 1994, la NATO iniziò una campagna di bombardamenti aerei limitati alle posizioni serbo-bosniache intorno alla capitale. Oltre un anno e mezzo più tardi, il 28 agosto 1995, una seconda strage in quello stesso mercato – su cui la propaganda serba tentò nuovamente di convincere il mondo di una responsabilità musulmano-bosniaca – convinse la NATO a intensificare i bombardamenti contro i serbo-bosniaci con la campagna Operation Deliberate Force. Nell’arco di poche settimane, i serbi vennero costretti ad arrendersi e partecipare ai negoziati di pace.