«Da dove è balzata fuori Chiara Frugoni?»

Se lo chiede Antonio Gnoli dopo aver intervistato la grande storica del Medioevo su Repubblica, e avere ascoltato la sua storia

Chiara Frugoni è una delle più importanti studiose del Medioevo, e una storica di fama mondiale. Sta per compiere 74 anni e domenica 19 gennaio è stata intervistata da Antonio Gnoli su Repubblica: non sui temi di cui si occupa, ma su se stessa e la sua ricca e tormentata storia familiare, che valeva la pena di essere raccontata e di essere raccontata da lei.

Da quale angolo o buco del Medioevo è balzata fuori questa donna insieme affabile e intelligente, la cui lieve rassegnazione, in certi momenti della nostra conversazione, sfiora il martirio? Me lo chiedo dopo aver ascoltato il lungo racconto di Chiara Frugoni. Un sentimento di calma avvolge le sue parole e una distratta bellezza nutre il volto franco e dolce. Non c’è convenzionalità nei suoi pensieri che vivono, mi sembra, di una sottaciuta divergenza con la vita. Cosa li muove? Da quale fuoco arcano provengono? Una medievista di rango, apprezzata in tutto il mondo per i suoi studi su San Francesco, srotola il proprio tempo con la precisione di una miniatura, invitandoci a scendere fino al punto in cui felicità e infelicità si toccano in certi dettagli o strade aliene che lei ha percorso. A cominciare dall’infanzia, sulla quale la Frugoni ha recentemente scritto un libro (Perfino le stelle devono separarsi, Feltrinelli), carico di reticente commozione.

È lì, in quel luogo irrisolto, che prende corpo qualcosa di strano e di doloroso: «Sì, la mia infanzia compendia la stranezza e il dolore, il sacrificio e la crudeltà. E forse questo piccolo libro, nel quale mi racconto grazie alle figure che hanno attraversato la mia prima vita, desidero pensarlo come una forma di congedo. L’ho scritto cercando una certa pace».
E l’ha trovata?
«La pace? Diciamo che ritornare sui luoghi della mia infanzia ha lenito la mia angoscia».
Quali luoghi?
«Solto, innanzitutto e poi Brescia. Tutto quello che mi è accaduto fino ai dieci anni si è svolto in quella cornice. Tra il paradiso e l’inferno».
Due mondi opposti, come li conciliava?
«Non c’era conciliazione tra le due “società”. Tra quella dei nonni materni, la parte ricca, e quella dei nonni paterni: povera, indigente, dignitosa. Le due famiglie non si sono mai toccate. Mai un abbraccio, una festa celebrata in comune. Mai niente che le mescolasse».
E lei come reagì?
«Con rassegnazione. Erano mondi codificati, difficili da aggredire o cambiare. Il babbo era a Roma per studio e lavoro. Con la mamma vivevamo in un bel palazzo nel centro di Brescia. Occupavamo una stanza come dei rifugiati. Il giorno a scuola dalle suore. La sera insieme a cena con i nonni. Di solito c’era il classico piatto di minestra. Finito il quale la mamma tirava fuori da un sacchetto una fetta di stracchino».
Come spiega tanta austerità?
«Era il loro tratto crudele. Ma anche il modo di interpretare un’idea di bene, tanto assurda quanto impervia. Il nonno materno, molto bigotto, diceva che sarei diventata una badessa».
E per questo la fece studiare dalla suore?
«L’intenzione fu quella. Ma mi trovai in una scuola assurda e folle».
Folle?
«Sì, quelle suore – ossessionate dal sesso e dalla vita – volevano che avessimo delle visioni. Ci dicevano che se non avessimo visto l’ostia animarsi saremmo state dannate. Passavo il mio tempo nella penitenza e nella preghiera. Portavo il cilicio a insaputa dei miei».

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