Il tempo senza lavoro
La brutta storia dell'improvviso licenziamento dei dipendenti dell’Eutelia, e tutto quello che è successo dopo, nel libro di Massimo Cirri
Feltrinelli ha pubblicato Il tempo senza lavoro di Massimo Cirri, giornalista e psicologo, autore e conduttore di Caterpillar su Radio 2 Rai. Cirri racconta la storia dei dipendenti dell’azienda di telecomunicazioni Eutelia, che hanno visto dall’aprile 2009 l’annuncio della cassa integrazione per duemila lavoratori, l’occupazione dei locali da parte dei dipendenti, l’arresto dei vertici dell’azienda per bancarotta, e praticamente la chiusura dell’azienda. Il libro raccoglie anche i testi scritti da alcuni lavoratori, che spiegano le sensazioni provate nella loro condizione di non occupati. In questo brano Cirri racconta gli incontri organizzati dal sindacato per aiutare i dipendenti a affrontare il disagio della loro situazione.
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Il primo incontro nella Sala Quercia dello stabilimento Agile ex Eutelia di Pregnana Milanese comincia alle dieci e qualcosa di una mattina di maggio. Finisce un paio d’ore dopo e va così così. Poi capiremo, se capiremo qualcosa perché poi è poi e poi son capaci tutti, che abbiamo cercato di parlarci mettendo insieme due linguaggi. Il primo è quello dell’assemblea sindacale – o briefing, ma assemblea è meglio e adesso è chiaro una volta per tutte. Un linguaggio – e per linguaggio intendiamo tutto: modalità comunicativa, visione del mondo, approccio, capacità di comprensione, stereotipie e tic – sedimentato da molto tempo. Credo dalla rivolta di Spartaco il Gladiatore in poi. Di sicuro da Giuseppe Di Vittorio, che su un palchetto improvvisato in una piazza polverosa arringa i braccianti siciliani dicendo loro parole che possono capire – altrimenti finisce come Tonino Di Pietro – e parole nuove, che disegnano un futuro. Comunque un linguaggio scritto e parlato da anni e anni. Che qui, per darne un esempio, non si chiamano anni ma “stagioni”. Di preciso “stagioni di lotta”. Un linguaggio con le sue prassi grammaticali, i passi e le successioni, i vocabolari, i modi di dire e le abbreviazioni. Un linguaggio che Corrado Mandreoli, sindacalista davvero, padroneggia con grande umana capacità. Io già un po’ meno. A volte sento descrivere una congiuntura e so che la congiuntura è sempre difficile. E poi sento che per sbloccarla, questa difficile congiuntura, bisogna intraprendere dei passi e il primo è sempre l’apertura di un tavolo. Lo so che significa “Aprire una trattativa, aprire un tavolo di trattativa”, ma, automaticamente, a me si apre il tavolo da picnic. Casomai con annessa tovaglia a quadrettoni rossi e bianchi. Peggio ancora quando un tavolo bisogna convocarlo subito. Così mi chiedo se arriverà. Ma poi mi adeguo. Perché l’identità, lo so, passa anche dalla lingua comune.
Le altre venti persone che sono sedute a questo tavolo non so come siano messe con la lingua del sindacato. Sono uomini e donne, un po’ più della metà donne, tutti tra i quarantacinque e i cinquant’anni e qualcosa. So, Mandreoli ci tiene che io arrivi preparato all’incontro, che hanno profili professionali medi o medio alti, diplomati e laureati. Molti hanno passato, qui a Pregnana o nell’altra società caduta nelle grinfie dei nuovi manager, i Landi, tutta la loro vita lavorativa. Mandreoli saluta e inizia a raccontare del perché siamo qui. Io, pur preparato dal suo riassunto dei giorni precedenti, mi sento già incapace di comprendere. Non sono attrezzato culturalmente. Negli anni del Servizio di salute mentale ho incontrato molte forme di disperazione. Ma queste persone sono un po’ differenti e non rientrano nelle categorie sociali in cui sono abituato, anche se non vorrei, a inserire le storie. Lo capisco di colpo quando una signora bionda racconta dei suoi primi mesi di cassa integrazione – in linguaggio sindacale, perché in questo ancora siamo, semplicemente “cassa” – e dice che quelli non sono stati neanche troppo terribili, come esperienza umana. Il peggio è arrivato dopo. Ma di quei primi mesi senza l’obbligo di uscire presto per andare a lavorare ne ha approfittato per passare un bel po’ di tempo nella sua casa di campagna a fare l’orto. Io mi stupisco. Per me le due categorie – cassa integrazione e casa di campagna – non possono stare insieme. In cassa integrazione ci finiscono persone che non possono avere una casa di campagna. Così capisco che qui c’è dell’altro. E intuisco quanto siano vecchie le mie categorie e quanto questa crisi economica sia davvero potente e cattiva. Credo di pensare, per un attimo, anche a come potrei finirci dentro anch’io. E a cosa farei, alla mia disperazione e alle mie fragilità. Poi mi dico che qui all’Agile ex Eutelia in cassa integrazione e nella casa di campagna fuori stagione ci sono finiti perché avevano dei padroni criminali. Crisi o non crisi, quelli volevano rapinare e distruggere. Ma è una giustificazione che tiene poco, giusto per rassicurarmi un attimo. La signora bionda si chiama Paola Fontana e poi racconterà di quanto ci si possa stare stretti fino a non poterne più in una casa di campagna, man mano che passano i mesi vuoti della cassa. Poi nella casa di campagna ci andrà un po’ meno anche perché si spenderà molto per tirar fuori il meglio da questa storia. E un po’ di tempo dopo, nella tesi per un corso universitario nella quale racconta questo percorso e si intitola I gruppi di auto mutuo aiuto come strumento di politica attiva per il lavoro, scriverà molto bene chi sono e con quale carico di sentimenti individuali e collettivi ci sono arrivati, a questa strana riunione, i suoi colleghi e le sue colleghe e lei. Paola dice alla svelta quello che io avrei messo insieme male e capito molto più lentamente.
Gli anni di Eutelia e poi quelli di Agile erano stati caratterizzati da un clima di lavoro molto negativo e la percezione chiarissima che gli obiettivi delle proprietà non erano lo sviluppo del business aziendale. Demansionamenti, trasferimenti punitivi, licenziamenti dei delegati sindacali (sempre puntualmente reintegrati dal giudice), il business aziendale sempre più in declino, avevano reso i lavoratori demotivati, appiattiti e silenziosi. Poi, già esasperati da tutto questo, a seguito del mancato pagamento delle retribuzioni per quattro mesi, questa realtà impiegatizia di cinquantenni finalmente arrabbiati nel novembre del 2009 aveva deciso di bloccare le attività in tutta Italia, per rivendicare i propri diritti e cercare di destare l’interesse dell’opinione pubblica sulla paradossale situazione che stavano vivendo e sull’evidente illiceità dei comportamenti della proprietà. […] Il periodo del presidio delle sedi aziendali era stato un periodo molto attivo ed importante dal punto di vista delle relazioni fra colleghi. Condividevano molto e questo li aveva avvicinati. Poi il tempo era passato, avevano ottenuto l’amministrazione straordinaria ed il presidio era finito. La maggior parte di loro non aveva ripreso a lavorare ed era stata messa in cassa integrazione straordinaria, con prospettive di reintegro quasi nulle. Ognuno di loro si era trovato ad affrontare, questa volta da solo e a casa propria, questa nuova condizione. E questa nuova condizione aveva portato grande disagio a molti di loro, lavoratori da tutta una vita, improvvisamente a casa, senza sapere più come passare le giornate, senza più un ruolo, il punto di riferimento del lavoro, inattivi, disorientati ed in colpa. In tutto questo, il problema economico era solo uno dei problemi e, a volte, neanche il più urgente.
Il problema più urgente, mi ha raccontato Mandreoli chiedendomi se potevo venire con lui a quest’assemblea un po’ sui generis, sono le persone che stanno male. Male di testa, di sentimenti, di vita. C’è la preoccupazione dei delegati sindacali nel vedere questo attorcigliarsi delle esistenze intorno al tormento. E poi c’è stato, qualche settimana fa, quello che è successo all’Italtel. L’Italtel è una grande azienda che sta qui vicino, a Castelletto di Settimo Milanese, otto chilometri di strada, un viaggio di dieci minuti. Un’azienda importante l’Italtel, per la storia industriale, sociale e politica di Milano. Da qui è passata Marisa Bellisario, qui sono stati investiti vagoni di soldi pubblici, qui le Brigate Rosse sequestrano un dirigente, si chiama Idalgo Macchiarini, è un ingegnere, è il marzo del 1972 ed è la prima “azione” delle Br contro una persona.
All’Italtel c’è la crisi e a Castelletto in duecentododici hanno ricevuto la lettera che li mette in cassa integrazione per sei mesi. Qualche giorno dopo uno dei delegati sindacali, ha avuto anche lui quella lettera, si toglie la vita in casa. Lasciando altre lettere, di commiato, sul tavolo della cucina. Ce n’è traccia sui giornali locali:
Oggi i lavoratori della Italtel di Castelletto a Settimo Milanese sono usciti sul piazzale della loro azienda in crisi per un momento di raccoglimento. Un loro collega è stato trovato senza vita sabato scorso nella sua abitazione di Monza. Il Magistrato ha ordinato l’autopsia. Ebbene, quell’uomo solo la settimana scorsa era con i suoi colleghi-amici al presidio per difendere il suo posto di lavoro.
Appena un trafiletto. Ma è una notizia che quelli dell’Agile ex Eutelia sentono drammaticamente potente e vicina. Anche da loro c’è molta sofferenza. C’è timore di un contagio. Se ne parla in un’assemblea e la questione del dolore viene fuori. Credo che un po’ del merito sia di Mandreoli, che è lì per la Cgil. Mandreoli è quello che si è inventato il delegato sociale. Vale a dire uno che fa il delegato sindacale ma ha in più la capacità e l’orecchio emotivo per sentire i dolori degli altri. O il clima avvelenato tra le persone nei reparti. O come i casini della vita privata si intreccino con quelli sul lavoro. Mandreoli riesce a farsi finanziare un corso di formazione dalla Provincia di Milano, l’assessore non è proprio vicino alle posizioni del sindacato ma lui lo convince lo stesso, e mette insieme un gruppo di delegati che imparano come si fa ad ascoltare meglio uno che sta male, a riflettere su come si sta male e come si può fare a stare un po’ vicino a uno che è un po’ fuori di testa o che beve o che si fa un po’ troppe canne. Sul luogo di lavoro o fuori. E poi li porta, i delegati sociali del corso di formazione, a incontrare i servizi di salute mentale e quelli per le tossicodipendenze. Me lo ricordo, quando lavoravo con il servizio di salute mentale, l’arrivo del gruppo in visita di studio. I delegati ascoltano ma soprattutto fanno domande, dicono la loro, interrogano a volte con l’apparente ingenuità di chi non ne sa nulla perché viene dal mondo di fuori. Poi mettono giù una questione sul senso profondo del tuo lavoro – tu ti senti un raffinato psicologo della salute mentale – e quella domanda ti inchioda. Il gruppo con Mandreoli capogita è sempre numeroso. Ci sono i delegati delle grandi aziende pubbliche, la municipalizzata dei rifiuti, quelli dell’energia, i delegati della Snam, il gas, quelli che lavorano nei supermercati e quelli delle banche. Sui bancari – noi miseri con il contratto della sanità pubblica – ci vendichiamo facendo le solite rituali ironie sulle diciassette forse diciotto mensilità di stipendio. Si sa. Loro ci raccontano che quel periodo mitico – il posto in banca sogno delle madri per il marito della figlia – è finito da tempo e adesso anche in banca ci sono ristrutturazioni, prepensionamenti, minacce di licenziamento e cambiamenti continui. Che minano l’abitudine e il sistema nervoso. A volte anche quello gastrico. Ma con le gite di Mandreoli e dei suoi strani delegati si crea un legame. Poi, se sei mesi dopo uno di loro chiama il Servizio di salute mentale per chiedere aiuto, contatto, un’idea di che cosa fare per quel collega che a volte urla con i clienti perché è un po’ fuori di testa, almeno ci si conosce già un po’. E trovare un approccio – “perché il collega che urla facile, di psichiatri e psicologi non ne vuol sapere nulla, ma secondo me ne avrebbe davvero bisogno” –, qualcosa fuori dall’ordinario della visita di controllo, può essere un po’ meno difficile.
Un altro po’ di merito se i suicidi verranno tenuti fuori dalla storia dell’Agile ex Eutelia è dei delegati sindacali. Uno si chiama Angelo Pagaria e insieme ad altri, come Roberto Dameno dell’Italtel, lo conosceremo qualche tempo dopo, hanno davvero fatto la “Resistenza”. Hanno aiutato gli altri a resistere. Hanno tenuto insieme le persone, i gruppi, quelli in cassa e quelli che ancora lavorano, i sommersi e i salvati (all’apparenza), che a dividersi e diventare nemici basta nulla. Hanno tessuto reti di relazioni, parlato con tutti, fatto milioni di telefonate, invitato Dario Fo al presidio, portato a pranzo il sindaco, inventato l’impossibile. Per resistere tutti, in gruppo, alle forze della dispersione e alla centrifuga della disperazione. Sono piccoli di statura, sia Pagaria che Dameno, e non dev’essere un caso. Resistono meglio controvento.
Così, credo anche per la paura del suicidio all’Italtel, di sofferenza personale se ne parla per la prima volta in quell’assemblea all’Agile ex Eutelia. È una delle prime volte che lo si fa, in assoluto, in un luogo sindacale. Paola Fontana c’era:
Così, in un’assemblea aziendale, la Camera del Lavoro di Milano aveva proposto di fare un gruppo in cui, chi voleva, poteva parlare del proprio disagio, della propria sofferenza e confrontarsi con altri che si trovavano nella medesima situazione. La proposta era stata accolta con favore ma anche con qualche riserva, perché si trattava di qualcosa di inusuale in ambito lavorativo, almeno negli ultimi decenni. Parlare di sé, della propria intimità, ascoltare il racconto degli altri, condividere pensieri, difficoltà e strategie modificava la qualità delle relazioni fra colleghi in modo veramente significativo. Ma forse, i rapporti di amicizia che si erano instaurati durante il presidio li facevano sentire meno estranei a questo approccio.
Così questi incontri erano incominciati.
Così siamo qui, al primo incontro ufficiale sullo star male da mancanza di lavoro. Corrado Mandreoli ha ricapitolato il percorso che ci ha portato a questo punto. Qualcuno interviene per raccontare qualcosa di sé. C’è un po’ di imbarazzo. Appena appena ma c’è. Non siamo mica tanto abituati, come specie umana occidentale, a dire così in pubblico qualcosa di personale sui nostri dolori. Qualcuno parla, sono soprattutto le donne. Mai saremo grati a sufficienza alle donne. Perché ci sono anche momenti di silenzio che paiono lunghissimi.
Non ricordo molto altro. Mi ero portato un quadernetto per prendere appunti, ma qui scrivere sembra irrispettoso. Ricordo invece che ho pena di me quando – per tentare di generare un po’ di empatia – racconto di quel periodo da giovane, dopo la laurea, quando resto un anno senza lavoro. È di come vado di concorso in concorso per le Alpi bellunesi e il basso Polesine. E di come mi sento in colpa perché sono senza lavoro e lo so benissimo che non è colpa mia se sono senza lavoro ma mi sento in colpa lo stesso. Mentre racconto guardo un po’ le facce di quelli che ascoltano e percepisco quanto il mio sia un discorso stentato. Perché parlo di un me stesso che è passato da tanto di quel tempo che quello là – checché ne dica – non sono più io. È un altro. E poi è giovane, ha le speranze davanti e poi non è neanche qui, è lontano nel tempo. Qui, invece, in carne e ossa ci sono persone più avanti negli anni che stanno di fronte alla disperazione. C’è ancora un po’ di silenzio. Poi un uomo prende la parola e racconta di un colloquio di lavoro a cui è andato qualche settimana addietro. Ci racconta che la cortese selezionatrice gli dice, finito il colloquio, frasi di circostanza. Poi lui la sente, mentre parla con un altro selezionatore, e ci riferisce quello che ha sentito dire di lui. Ha sentito: “Ma questo qua è morto”. Intende morto come energia, motivazione, impegno, possibilità, voglia. O chissà cosa. Le cose che misurano quelli là in quei colloqui. Ma a noi, mentre il signore ce lo racconta, rimane solo quella parola là: morto. Come una sentenza. Un azzeramento di futuro, la fine della vita. Ne rimango molto colpito. Come gli altri, anche se il gruppo si difende – mi pare – da quella brutalità gratuita che tutti si sono sentiti scaraventata addosso, colpiti in prima persona, con qualche battuta sarcastica, anche intelligente. Io penso, molto amareggiato, anche qualcosa tipo: “Ma vaffanculo Mandreoli che mi porti in questi posti a soffrire gratuitamente”. “O forse lo fa apposta,” aggiungo nel pensiero, “e mi porta qui perché sono vivo: io lavoro alla radio, che è parente della televisione. E in televisione tutto è vivo. Quindi io sono vivo e qui, è vero, sono tutti morti.” È un brutto momento, davvero. Mi viene in mente quanto perdere il lavoro generi una trasformazione mostruosa, inaccettabile. Come nella Metamorfosi di Kafka. Ti svegli una mattina e sei diventato qualcos’altro, un essere inaccettabile. E poi, ulteriore mostruosità, il signor Gregor Samsa, quando si risveglia trasformato in scarafaggio, non ha come prima preoccupazione quello che gli è successo. Se ne frega di essere un insettone schifoso. La prima angoscia è perché non sa come andare a lavorare. Perché è il lavoro il centro di tutto.
Sento condivisa un’amarezza dalla quale non si sa come uscire.
Ma ne usciamo. Poi il gruppo finisce. Saluti, arrivederci, grazie. Allora appuntamento qui tra quindici giorni.
Percorriamo il marciapiede circondato dall’erba che ci porta verso l’uscita, Corrado Mandreoli e io, e siamo un po’ scossi. Ci diciamo che è andata abbastanza bene. Non so quanto ne siamo veramente convinti. Sappiamo che c’è una tensione, dei nodi, qualche difficoltà. Sappiamo che è una cosa nuova per tutti. Facciamo anche qualche considerazione sociologica: non siamo abituati, come italiani e di una certa età, a parlare così, in pubblico, delle nostre fragilità. Sai che profondità di considerazioni e di sociologia. Poi raggiungiamo la portineria, scambio tra tesserino Visitatore e carta d’identità, e saliamo sulle motorette. “Ciao, ci sentiamo”, “La sai la strada?”, “Non ti preoccupare, ti seguo”. Ma Mandreoli è più veloce, alla seconda rotonda non lo vedo più e per tornare a Milano mi perdo tre volte.
Nel secondo incontro, quindici giorni dopo, viene fuori il secondo linguaggio che terrà insieme il gruppo. Tiziana Crostelli, quella che avevo visto in un santino elettorale, ha fatto girare delle mail per ricordare l’appuntamento a chi c’era la prima volta e agli altri colleghi che avessero voglia di esserci in questa. E lo ha chiamato Gruppo psicologico. Io non so perché “gruppo” – non l’abbiamo mica discusso in gruppo come deve definirsi il gruppo, ma gruppo va bene – e perché “psicologico”. Un aggettivo che a me un po’ irrita, ma anche di questo non so il perché. Dopo l’assemblea-briefing, dopo una breve pausa, da adesso c’è anche il Gruppo psicologico.
Inizia con qualche minuto di riepilogo su obiettivi e perché siamo qui oggi, detto ancora in sindacalese. Poi una signora seduta al tavolo prende la parola, racconta come sta, dice che sta male e comincia a piangere. Racconta di sé e piange. Così viene fuori un altro linguaggio e cambia tutto. Paola Fontana, ancora, lo sa raccontare bene:
Oggi c’è la seconda riunione del gruppo di auto-aiuto. […] Nella prima riunione del gruppo abbiamo partecipato in una ventina; non abbiamo detto molto in quella riunione, siamo rimasti piuttosto in superficie, più che altro ci siamo presi le misure. Il sindacalista e lo psicologo ci hanno raccontato quello che avevano in mente, ma molti di noi erano delusi perché non ci hanno portato nessuna formula magica per risolvere i nostri problemi.
Oggi ci riproviamo, chi più scettico, chi fiducioso. All’inizio non succede molto, ma all’improvviso una di noi si mette a piangere e da qui è come se finalmente fossimo in grado di parlare e tirare fuori tutto quello che ci pesa dentro. E non parliamo solo della perdita del lavoro, ma di tutto il carico di sofferenze che ci portiamo sulle spalle: storie terribili e molto private che quasi con urgenza escono fuori, lasciando ammutoliti e con le lacrime agli occhi chi le ascolta.
È un momento irripetibile, di un’intimità profonda, che condividiamo ed ancora una volta ci aiuta e ci unisce.
Di questo parlarsi diremo poi che è il linguaggio dell’auto-aiuto: persone che si ritrovano per una questione comune che mette in discussione la loro esistenza – una malattia, un disagio, un casino – e parlano di sé. In un’atmosfera non di amicizia – ci si può anche conoscere appena – ma di amicalità. Dell’auto-aiuto abbiamo imparato che è facile da farsi e costa nulla. Basta trovarsi. Ma senza stare troppo a teorizzarci sopra. E poi le due lingue rimangono entrambe, intrecciandosi: siamo assemblea sindacale e anche auto-aiuto. Mandreoli dice che il sindacato è anche, da sempre, una pratica di auto-aiuto.
Poi vengono molti altri incontri, nella Sala Quercia dell’Agile ex Eutelia di Pregnana Milanese. Si incrociano sempre racconti sulla sofferenza dell’essere senza lavoro con altre sofferenze: della famiglia, della vita, della solitudine. C’è sempre molta attenzione e ci sono ancora momenti di silenzio. Ma sempre, in qualche modo, qualcosa si scioglie. Alla fine di ogni incontro si tira un sospiro di sollievo. “Anche se non abbiamo risolto nessun problema,” dice Mandreoli.
Poi nello stabilimento di Pregnana, che avrebbe dovuto disegnarlo Le Corbusier ma poi non se n’è fatto nulla, mentre intorno sono sempre meno le persone che lavorano e sempre di più le postazioni abbandonate, sono venute Cecilia Fresia ed Elena Varvello della Scuola Holden di Torino a insegnarci come si possono scrivere meglio le cose che ci sono capitate. Sono state partecipi e appassionate, hanno letto, riletto e riscritto. Discutendo sempre. Tutti seduti intorno al tavolo di legno scuro della Sala Quercia siamo diventati un po’ gruppo di scrittura rimanendo gruppo di auto-aiuto. Come prima, quando da assemblea eravamo diventati gruppo di auto-aiuto ma restando anche assemblea. Un divenire fluido e piacevole. Molti sono passati dallo scrivere in prima persona a un raccontare di sé più largo, guardandosi dentro un po’ più da fuori, in terza persona. Un po’ di distacco per rimanere meglio quello che si è. Poi siamo usciti anche da Pregnana Milanese, Milano, e siamo andati in giro per l’Italia a raccontare questi strani incontri. Poi ne sono nati altri, di questi gruppi di auto-aiuto, e continuano. Poi staremo a vedere.
Ma è iniziato tutto quando quella signora ha cominciato a piangere.
(c) Giangiacomo Feltrinelli editore Milano