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  • Lunedì 10 giugno 2013

Figli dello stesso padre

Il primo capitolo del romanzo di Romana Petri, che racconta del tentativo di riconciliarsi di due fratelli, figli dello stesso padre e completamente diversi tra loro

di Alessandro Sabbatini - Caffeina

Figli dello stesso padre, pubblicato a marzo da Longanesi e tra i dodici finalisti del Premio Strega, è un romanzo psicologico della scrittrice Romana Petri che racconta una storia dolorosa di passioni perdute, e complessi di colpe che chiedono un’espiazione. I protagonisti sono due fratellastri, figli dello stesso padre Giovanni, e completamente diversi tra loro: Germano è un pittore di quarantanove anni dal temperamento irrequieto e impetuoso; Emilio è un professore quarantenne di matematica, composto e pacato. Eppure entrambi condividono una giovinezza difficile, segnata dal senso di vuoto della figura paterna. L’assenza del padre – un uomo ingombrante ed egocentrico con una “sindrome di Peter Pan” – ha generato nei figli insoddisfazione negli affetti e insofferenza reciproca.

A distanza di anni Germano ed Emilio proveranno a superare i rancori e le invidie di un tempo, spezzando un silenzio lunghissimo, e cercheranno di scrollarsi di dosso un passato doloroso ancora presente nelle loro vite. In occasione della rinnovata collaborazione tra il Festival Caffeina e il Premio Strega, pubblichiamo il primo capitolo del romanzo.

***

Emilio chiuse a chiave il suo studio e si avviò a passi lenti lungo il corridoio. Prima, però, come ogni giorno, restò per un istante a leggere la targa sulla sua porta: Prof. Emilio Acciari.
Nel corridoio del dipartimento di Matematica, a quell’ora si attardavano pochi studenti. Emilio camminò fingendo di ignorarli, come distratto da qualcosa di urgente. I ragazzi lo salutarono con un breve cenno del capo ammutolendo al suo passaggio per poi riprendere subito dopo a parlare tra di loro a bassa voce.
Non poteva farne a meno, Emilio, era un suo rito quotidiano. Uscendo dal dipartimento, con la cartella di cuoio sotto il braccio, ripeteva un pensiero composto sempre dalle stesse parole: « Mi sono diplomato al liceo Manzoni di Milano con il massimo dei voti, mi sono laureato alla Statale di Milano in Matematica con il massimo dei voti, ho fatto un master a Parigi e uno a Pittsburgh, dove ormai ho una cattedra da otto anni. Speravo di diventare alto e invece sono un uomo minuto, di bassa statura. E sono il figlio non voluto di mio padre ». Concludeva il pensiero nel momento in cui apriva la grande porta a vetri dell’atrio, e poi, quando si trovava all’aria aperta, con la porta che gli si era richiusa automaticamente alle spalle, tirava il solito e benefico respiro di sollievo. Allora infilava la mano destra nella tasca della giacca, tirava fuori le chiavi e allungando il braccio in direzione della sua auto la apriva. Continuava a piacergli quel gesto. Si ricordava di quando era bambino e le auto si aprivano ancora infilando la chiave nella serratura. Gli sembrava proprio una cosa d’altri tempi. La prima auto con l’apertura elettronica che aveva visto era di un’amica di sua madre. Se lo ricordava bene. Aveva citofonato un pomeriggio di giugno e aveva gridato: « Affacciati, devi vedere una cosa! » e sua madre si era affacciata al balcone tenendolo per mano. Lo faceva sempre, come se uscire sul balcone potesse comportare dei gravi pericoli anche a dodici anni. E insieme avevano visto quel miracolo della tecnica. «Hai visto, Emilio? Bello, eh? Un giorno ce l’avremo anche noi due una macchina così. »
Sua madre. Per fortuna era ancora viva anche se l’aveva avuto tardi. Quando rimase incinta di quell’uomo sposato, aveva quarantatré anni. Quante volte gliel’aveva raccontata quella storia? « Sai, Emilio, mi sono detta: Costanza, questa è la tua ultima occasione. Se non lo fai, ti ritroverai a passeggiare per i giardinetti di Milano a sessant’anni con un gran rimpianto dentro il cuore.» Era stata una donna di carattere, quell’ultima occasione non se l’era lasciata sfuggire. E lui, che ora di anni ne aveva quasi quaranta, non passava giorno senza pensarci. Così come non passava giorno senza chiamarla, quasi sempre in macchina, nel tragitto che lo riportava dall’università a casa. Si raccontavano la loro giornata e finivano sempre per dirsi che tutta quella distanza, quell’oceano che li divideva, non scalfiva la loro intimità. Magari non era proprio così che si dicevano, ma trovavano sempre il modo di sottintenderlo.
Quando Emilio rientrava, sua moglie Jenny non era quasi mai tornata a casa. Faceva l’avvocato e il suo orario di lavoro si prolungava sempre oltre il dovuto. Generalmente, appena arrivato aveva giusto il tempo di togliersi la giacca, allentarsi il nodo della cravatta e lavarsi le mani. La ragazza, una colombiana che andava a prendere i bambini a scuola, se ne andava via di corsa sollevando il ghiaino del vialetto che lui, subito dopo, con l’aiuto dei figli avrebbe rimesso a posto. Prima di arrivare al cancello si voltava almeno tre volte mandando un bacio dietro l’altro ai bambini che lui teneva in braccio sulla porta. Poi svoltava a destra e certamente accelerava ancora di più il passo per non perdere la corriera che l’avrebbe riportata a casa. A quel punto suonava quasi sempre il telefono. Era Jenny che, più o meno con le stesse parole di ogni giorno, gli diceva per quanto tempo ne avrebbe avuto ancora in ufficio. Erano telefonate affettuose ma brevi, molto in sintonia con il suo carattere e le sue origini inglesi. L’avevano stupito fin dai primi tempi quei modi ordinati ma taglienti, e non ci si era mai abituato del tutto. Jenny era molto frettolosa, specialmente nei congedi, soprattutto se dopo avergli parlato gli passava un’altra persona. Allora la telefonata si concludeva sempre con il secondo interlocutore. Lei non tornava mai all’apparecchio. Succedeva, per esempio, ogni volta che andava a casa dei suoi e la madre o il padre volevano fargli un breve saluto. «Ti passo mia madre» gli diceva. A quel punto sapeva che i saluti di Jenny non ci sarebbero stati. « È il suo lato british » pensava ogni volta con un po’ di pena nel cuore.
Dell’argomento, comunque, non avevano mai parlato. Emilio aveva imparato da molti anni ad accettare le persone com’erano.
Jenny l’aveva conosciuta negli anni del master, durante una festa. Aveva avuto qualche altra esperienza prima di lei, ma erano state storie brevi, che aveva preferito concludere non appena si accorgeva della loro scarsa importanza. Sentimentalmente, non solo non gli era mai piaciuto perdere tempo, ma neanche farne perdere. Sarebbe andato avanti solo quando avesse conosciuto quella giusta. E quella giusta era stata Jenny.

Gli era piaciuta con la stessa forza con cui aveva sentito che Pittsburgh era la città in cui avrebbe vissuto. Nel taxi che dall’aeroporto lo aveva portato all’hotel, il primo giorno del suo arrivo, aveva pensato che quella città, più di ogni altra, gli ricordava il film Blade Runner, l’unico che l’aveva fatto piangere. Era stato dalla parte di Rutger Hauer fin dall’inizio. Rutger Hauer, cioè Roy Batty, il replicante con la vita a termine e una forza sovrumana, ma programmata per soli quattro anni. Non sarebbe mai potuto stare dalla parte di Harrison Ford. Non per il ruolo che interpretava, ma perché non aveva mai sopportato quell’attore. Era addirittura stato sul punto di non andare a vedere un film che sarebbe stato così fondamentale per lui proprio per via di quell’attore tanto irritante. Roy Batty, commovente fin dalla prima scena in cui appare, con quegli occhi di metallo e la bellezza da extraterrestre. Tutta la sua crudeltà è solo disperazione, la disperazione di una macchina ingiustamente dotata di sentimenti. Quella scena finale, quella magnanimità così… disumana. Quando abbassa la testa diventa un angelo. Anche se non ha le ali, si ha l’impressione di vederle. Nel momento in cui muore il mondo perde qualcosa che non avrà mai più. L’amore di Harrison Ford con la replicante a tempo indeterminato era un finale che consolava solo gli imbecilli. Lui che guida una decappottabile e lei con i capelli al vento. Insopportabile.
Quando Emilio comprò la videocassetta per guardarla insieme a Jenny, l’intenzione era quella di farle capire in che modo l’amava. Le aveva parlato tanto di quel film. Ma si era creato troppe aspettative. Alla fine, mentre lui piangeva, sul volto di Jenny non c’era stata nessuna commozione. Gli aveva fatto solo un breve commento: Pittsburgh non somigliava affatto a quella città. Gli occhi di metallo del protagonista non avevano niente a che vedere con la Steel City. Quando Emilio aveva riacceso le luci del soggiorno e spento la televisione, Jenny si era sentita in dovere di riassumergli in poche parole la storia della sua città.
Ogni volta che Jenny tornava a casa e i bambini le correvano incontro, Emilio, guardando quella scena, pensava: «Sono il figlio unico. Il figlio unico di mia madre».
Gli piaceva che nella sua vita ci fosse sempre un programma. Fin da bambino aveva scoperto che lasciare tutto nelle mani del caso poteva essere rischioso. Meglio programmare, avere sempre le idee chiare, fare progetti a lungo termine. Il matrimonio gli era servito molto, e soprattutto il carattere della moglie, sempre in sintonia con il suo, due giovani con molte idee concrete in testa che fin da subito avevano pianificato le loro vite. Un fidanzamento non troppo lungo, e poi avevano pensato alla casa che avevano scelto in funzione del futuro, con tre camere da letto perché i figli, che sarebbero stati due, potevano non essere dello stesso sesso, e poi, anche se lo fossero stati, da grandi avrebbero certamente preferito avere ognuno la propria stanza. E dopo avevano arredato la casa con calma, scegliendo ogni mobile con la convinzione che sarebbe stato quello definitivo, quello che nemmeno il tempo doveva sostituire.
Era una casa sobria e moderna. Pareti bianche senza quadri e mobili bassi, dai colori sfumati, quasi tutti grigio chiaro o bianco sporco. Una casa simile a quella del nonno paterno, il famoso designer che lui aveva frequentato poco, quasi niente. Quell’uomo un po’ spaventoso che tornava a casa sempre all’ultimo momento, con dei cappotti che gli arrivavano alle caviglie, grandi cappelli e sciarpe lunghe che si girava intorno al collo. Ogni volta che arrivava, lui e suo padre lo aspettavano in salotto da almeno un’ora. Restava vestito, con addosso l’aria gelida di Milano e, quando si chinava sulle gambe per scendere alla sua altezza di bambino facendogli odorare tutto quel freddo, stava per qualche secondo solo a guardarlo negli occhi. All’epoca, Emilio avrà avuto quattro o cinque anni, e per l’emozione spesso i capelli gli si appiccicavano sulla fronte in un sudore che glieli divideva in tante piccole ciocche. Gli incuteva timore, il nonno, ma non voleva abbassare lo sguardo, e così restava a guardare quel volto di vecchio dalla lunga barba bianca, le sopracciglia folte, la pelle scura che tradiva le sue origini meridionali, ma resa ormai giallognola dall’età e dall’aria inquinata di Milano. Per quanto stesse chinato sulle gambe, il nonno era comunque più alto di lui, e allora Emilio quello sguardo che non abbassava doveva rivolgerlo verso l’alto, e così facendo corrugava la sua fronte da capodoglio, come quella di tutti i maschi di famiglia, facendo sì che una ruga verticale si formasse tra le delicate sopracciglia di bambino. Lo tradivano il pallore, le occhiaie che diventavano più pronunciate, il sudore tra i capelli castano chiaro. E quando il nonno, dopo aver sostenuto il suo identico sguardo, alla fine sorrideva facendogli ancora più paura, lui ritraeva le labbra per non piangere.
«Papà, digli qualcosa» diceva imbarazzato suo padre. «Così lo spaventi e basta.»
«E cosa gli devo dire?»
«Non lo so, una cosa qualsiasi. Non lo vedi mai…»
«Appunto» rispondeva rimettendosi in piedi. «Siccome non lo vedo mai, lo guardo.»
Poi andavano a tavola. Sulla sedia di Emilio venivano messi due cuscini a fargli da rialzo, ma siccome erano quelli del divano, invece di dargli stabilità gli facevano perdere in continuazione l’equilibro. Cercava di stare immobile, ma poi arrivava la signora Celeste con il carrello delle pietanze, un carrello di metallo, con le ruote, simile a quelli degli ospedali. Serviva prima la signora Lia, la seconda moglie del nonno, una donna fascinosa, nonostante fosse prematuramente invecchiata. Una specie di uccellino che fumava in modo avido, quasi disperato, e che aveva frasi taglienti per tutti, un suo modo di irridere la vita, dopo che se l’era annichilita da sé restando accanto a quell’uomo che non le rivolgeva quasi mai la parola. Guardava il mondo con sprezzo e fumava cercando di trovare pace, ma lo guardava senza cattiveria, solo con dolore. Era quando doveva mangiare che Emilio cominciava a diventare nervoso. I cuscini gli ballavano sotto il sedere e a ogni movimento sembrava dovesse cadere in terra. E allora non mangiava.
«Non gli piace niente a questo ragazzino?» chiedeva il nonno. «Nemmeno una pera?»
Perché avrebbero dovuto piacergli le pere? Solo perché piacevano a lui? Allora Emilio scivolava dalla sedia, i cuscini cadevano per terra, cominciava a piangere senza che nulla potesse consolarlo e dopo il caffè il nonno diceva che s’era fatto tardi e se ne tornava nel suo studio. Usciva di casa senza dire niente, senza nemmeno salutare. Solo si sentiva la porta di casa che veniva chiusa. A quel punto, Lia scambiava due parole con Giovanni, il padre di Emilio, gli chiedeva se continuava ad andare dallo psichiatra, quali medicine gli faceva prendere, con che dosaggi, e poi gli elencava i vantaggi di quelle che prendeva lei, gli diceva di come le facessero dimenticare tutto il tempo che ormai era passato dalla sua giovinezza. Gli parlava delle plastiche che si era fatta per poter rimettere certi orecchini che solo stavano bene se le guance non cadevano. Gli faceva vedere che i segni dell’operazione erano già scomparsi. Girava il collo da una parte e dall’altra. Era più felice, era per questo che si era tagliata i capelli così corti, alla maschietta, diceva, e Giovanni guardava i suoi lineamenti perfetti, si ricordava di quando era bambino e lei una donna giovane e bellissima, delle vacanze a Procida, quando il pomeriggio, dopo mangiato, suo padre si chiudeva in camera da letto con quella moglie così bella da sembrare una dea. Sdraiato sul letto della sua stanza ridipinta ogni anno di fresco, Giovanni leggeva i suoi giornalini di Cocco Bill e sospirava pensando a quella donna abbronzata, ai suoi sandali da schiava, ai suoi occhi bistrati di nero, a quanto era diversa da sua madre che non si curava ed era stata abbandonata.

«Che glieli porto a fare i miei figli se poi fa così?»
«Non ci fare caso, lo sai com’è fatto» gli diceva Lia con la sua voce scura da fumatrice. «Però, quando glieli porti gli fa piacere.»
«Figuriamoci. Non gli dedica nemmeno qualche minuto. Mi dice di venire alle dodici e mezzo e si presenta dopo un’ora.»
«Lavora.»
«Chi glielo fa fare?»
«Il tempo gli vola via. È così» gli diceva, «proprio come la vita. Te ne sei accorto? La vita è un lampo. Anzi, è stata un lampo.»
Poi, in silenzio, Giovanni gli infilava a fatica il cappottino mentre la Lia gli metteva una manciatina di caramelle in tasca. «Non te le mangiare tutte subito, eh? » gli diceva sorridendo col suo volto rimodellato dal chirurgo.
Emilio, allora, per timidezza, cominciava a camminare come un burattino, come un gobbetto. Si incurvava, irrigidiva le braccia e faceva un passettino dopo l’altro a gambe tese.
«Non fare il buffoncello» gli diceva il padre.
E uscivano così. Scendevano quelle meravigliose scale fiancheggiate da statue tenendosi per mano. A una di loro, una donna nuda che tendeva in avanti un braccio, Giovanni metteva, per scherzo, una moneta in mano. Emilio scoppiava a ridere senza far rumore, portandosi una mano sulla bocca. Quando uscivano dal portone e si ritrovavano in strada, il padre gli metteva il berretto di lana in testa.
«Chi la prenderà quella monetina?» chiedeva Emilio continuando a ridere e socchiudendo gli occhi per la luce e il freddo.
«Qualcuno» gli rispondeva il padre.
Quella sera, dopo cena, mentre Jenny leggeva una favola ai bambini, Emilio si mise seduto in salotto a sfogliare il giornale. Voltava le pagine con poca convinzione, senza nemmeno guardarle troppo. Più che altro si guardava intorno, guardava la sua casa tranquilla e ascoltava la voce cadenzata di Jenny che un po’ lo addormentava.
«Ti abituerai ad avere una moglie che non parlerà mai la tua lingua? » gli aveva chiesto un giorno sua madre prima che si sposasse.
Era strano, ma ormai non gli sembrava nemmeno più che non parlasse la sua lingua. Dopo tanti anni, era a lui che ormai sembrava di non riuscire più a pensare nella sua lingua di origine. La lingua madre, pensava spingendo una mano contro l’altra per sentire le ossa che scrocchiavano. Poi le apriva e se le guardava come fossero qualcosa da decifrare, come se anche lì ci fossero scritte parole che, con il tempo, avevano cambiato lingua. Allora si alzò e andò nel suo studio, si sollevò sulla punta dei piedi e da uno scaffale in alto della libreria prese un piccolo libro rilegato in pelle blu dove c’era scritto La Main, un libro che veniva dalla biblioteca di suo padre ma che non era stato suo, bensì del secondo marito di sua madre, quell’inglese tanto infelice che aveva abbandonato la sua terra per una donna che non lo aveva mai amato del tutto. Era stata una strana storia, la loro. Le cose le aveva sapute a tratti, un po’ alla volta, sempre senza una vera cronologia, come se a ognuno, ogni tanto, venisse in mente un ricordo e lo raccontasse senza collegarlo ad altro. La casa in affitto alle Cinque Terre, dove la nonna e il Donald andavano in treno per poi inerpicarsi lungo una salita che non finiva mai, con le valigie in mano. Senza luce e senza acqua. No, non era possibile, l’acqua doveva esserci, magari non c’era la luce. E per fare un bagno di mare dovevano fare tanti di quei gradini… Ma erano gradini? Dove diavolo erano andati a cercarla una casa così scomoda? Il Donald cucinava i suoi cibi biologici, preparava i suoi tè, curava i suoi gonfiori con le tisane. Le verdure solo al vapore. Se l’era sempre immaginato con la pelle arrossata in quella casa di mare, proprio come un inglese. Sembra che non facessero mai l’amore. Pare non l’abbiano proprio mai fatto. Non è che non fosse normale, se si toccava da sé ci riusciva. Era con lei che… Ma chi poteva saperle queste cose con tanta certezza? Che le abbia raccontate la nonna? Da una come lei ci si poteva aspettare qualsiasi cosa, con tutto l’alcol che aveva mandato giù per una vita. Alla fine era diventata una mezza matta, se la ricordava bene in quella casa di famiglia, sul lago Maggiore, dove d’estate passava qualche giorno con suo padre, giorni calcolati al millimetro, stabiliti in modo ragionieristico in quelle interminabili discussioni con sua madre.
«Avrò anch’io diritto a starmene un po’ in pace, no?» gli diceva.
«Te lo tengo, ma sappi che non era nei patti» le rispondeva lui. «I patti erano che te lo tenevi e te lo cuccavi. Quindi, a ogni mia concessione, solo ringraziamenti.»
La nonna seduta sul dondolo a fumare una sigaretta dietro l’altra, già fuori di testa da anni, con quello sguardo spento e infelice che guardava lontano, quei sorrisi ebeti che ogni tanto le si stampavano su quel volto da vecchia con i capelli da ragazza. Quel corpo mangiato dall’artrite e che un tempo era stato desiderato e non posseduto da quel Donald doloroso che si riempiva lo stomaco di tisane contro i mali dell’intestino, i mali d’amore che lo avevano ucciso. «Tutti quei silenzi…» aveva sentito dire una volta dalla zia Artemia, sorella di suo padre. Poi la voce si era abbassata e non aveva sentito più niente. Ma c’era poco da immaginare, quell’uomo doveva aver preferito mandare in malora tutte le sue trippe piuttosto che dire una sola parola a quella donna che non lo amava del tutto, che lo aveva scelto per non stare da sola, per mettere tra lei e l’ex marito un puntello agli occhi del mondo. La nonna Ada e il Donald, una coppia per oltre vent’anni. «È stato lui il mio vero marito» l’aveva sentita dire una volta sul dondolo parlando da sola come se avesse avuto qualcuno di fronte. E lui, che giocava con il Lego, aveva alzato la testa e le aveva chiesto: «Quale marito, nonna?»
«Stai zitto» gli aveva risposto lei. «Io non sono una nonna nonnosa.»

Romana Petri Figli dello stesso padre-1Una nonna nonnosa. Non se l’era mai più dimenticato. Non era stata nemmeno una nonna. Li guardava con rabbia i suoi quattro nipoti in quei mesi di vacanza nella casa sul lago. Gli unici mesi in cui li vedeva, tra l’altro, ché durante l’anno, pure se stava a Milano, chissà che fine faceva quella nonna che viveva con una governante russa, la Luda, come la chiamavano tutti. La ratatouille della Luda, i tortelli della Luda, le polpette… I minestroni della nonna, che come una lumachina si avviava con un cesto di vimini sotto il braccio verso l’orto «a prendere i prodotti», li chiamava così, che poi lavava e tagliava per ore prima di metterli in quell’enorme pentola a bollire e bollire fino a che non sapevano più di niente. Ma forse lui non li aveva neanche mai mangiati quei minestroni, forse solo gli sembrava, proprio come certi ricordi che non sono nemmeno nostri ma solo le parole di qualcuno che abbiamo ascoltato. Per quello che ricordava davvero lui, la nonna non era proprio in grado di fare un minestrone. La nonna, nei suoi ricordi veri, stava seduta sul dondolo a fumare, oppure a sfogliare dei vecchi numeri di Topolino ingialliti per guardare solo le figure e imitare, ogni tanto, le facce dei personaggi. Una volta, senza malizia, aveva imitato la nonna che imitava. Sua madre, seduta sulla panchina sotto il portico, gli aveva fatto gli occhiacci e lui aveva imitato anche lei che alla fine si era coperta il volto con le mani per non farsi vedere che rideva.
Eppure, di tante case viste, quando aveva dovuto arredare la sua, aveva riprodotto quella asettica del nonno.
«Si sono addormentati?» chiese a Jenny vedendola comparire nello studio.
«Sì» rispose lei stiracchiandosi. «E tu che stai facendo?»
«Sto dando un’occhiata a questo libro» le rispose mostrandole La Main.
«Non dirmi che credi a tutte queste sciocchezze» gli disse Jenny strappandogli il libro dalle mani.
«No che non ci credo, però ho sempre trovato strano il fatto che tra tante mani non ce ne sia nemmeno una che abbia i tratti simili alla mia. Sono anni che ho questo libro, e ogni tanto mi viene voglia di controllare se davvero non ci sono.»
Jenny lo sfogliò rapidamente tenendo il palmo della mano sinistra aperto.
«Se è per questo, non c’è nemmeno una mano che somigli alla mia» gli disse guardandolo negli occhi e chiudendo il libro con un colpo secco. «Ce ne andiamo a letto?»
«Che ore sono?»
«Quasi le undici.»
«Credevo volessi vedere un film.»
«Sono stanca. Ho avuto una giornata faticosa e domani mattina devo andare in tribunale presto. Poi devo vedere un cliente in ufficio, all’una ho un pranzo di lavoro e il pomeriggio una riunione che so quando comincia ma non ho idea di quando possa finire.»
«Allora domani dico alla ragazza di fermarsi a dormire qui, così ti vengo a prendere quando hai finito e ce ne andiamo prima a cena fuori e poi a teatro.»
«Che lusso!»
Si portò una mano tra i capelli corti e uscì dallo studio a passi lenti per avviarsi in bagno. Emilio la seguì senza farsi sentire e si fermò sulla soglia della porta per vederla camminare lungo il corridoio. Indossava una delle tante tute di flanella che usava per stare in casa e ai piedi portava un paio di pantofole enormi, a forma di animale, come quelle dei bambini. Due ippopotami viola. Le gravidanze non l’avevano cambiata per niente, era rimasta la ragazza sportiva che aveva conosciuto tanti anni prima, lo stesso fisico asciutto e atletico. Di diverso c’erano solo i capelli corti.
«Sei sempre bellissima» le disse a bassa voce mentre lei stava aprendo la porta del bagno.
Lei si voltò a guardarlo e gli sorrise, con la mano appoggiata alla maniglia della porta semiaperta, e per un istante rimase così, quasi in posa. Continuando a sorridergli.
Quando Jenny entrò in camera, Emilio era già a letto con un libro in mano. Per un’abitudine che lui definiva vittoriana, sua moglie non si spogliava mai di fronte a lui in camera da letto. Lo faceva in bagno. Era stato così nei primi tempi del loro matrimonio e così continuava a essere anche dopo molti anni. Solo una volta gliene aveva chiesto la ragione, e Jenny gli aveva risposto che non aveva niente a che vedere con lui, gliel’avevano insegnato da bambina. Spogliarsi e vestirsi era una cosa privata, come molte altre, e si faceva in bagno. Quella sera, come sempre, la vide entrare in camera da letto con gli abiti che si era appena tolti già perfettamente piegati, pronti per essere riposti nell’armadio. Ma quella sera, prima di mettersi a letto, Jenny gli disse: «Mi ero dimenticata di darti questa lettera che è arrivata ieri per te. Viene dall’Italia».
Emilio abbassò sulla punta del naso gli occhiali che usava per leggere e allungò una mano. Poi chiuse il libro lasciandoci il segno con la matita e girò la lettera per vedere chi fosse il mittente. Ma non c’era scritto nulla. Allora l’aperse, ne tirò fuori un pieghevole, lo lesse e lo rimise nella busta che appoggiò sul comodino.
«Di chi era?» gli chiese Jenny infilandosi a letto.
«Di mio fratello» rispose Emilio. «È un invito a una sua mostra.»