Splendori e miserie del “copyright trolling”

La pratica di ricattare gli utenti che hanno scaricato file protetti da copyright chiedendo loro patteggiamenti e risarcimenti si è estesa al porno, racconta Businessweek

di Rossella Quaranta

Il settimanale Businessweek racconta nel suo ultimo numero il fenomeno del “copyright trolling” e le sue più recenti evoluzioni. L’espressione definisce – “trolling” è un termine che ormai da molti anni è usato in rete per definire attività di molestie e teppismo online – una pratica che alcune società di contenuti editoriali e studi legali hanno cominciato a perseguire per contrastare la pirateria e il download illegale di materiali coperti da diritto d’autore, traendone guadagni nella forma di risarcimenti e patteggiamenti da parte di chi viene minacciato di denunce e procedimenti giudiziari.

L’utente che ha scaricato file illegali tramite sistemi peer-to-peer viene identificato attraverso l’indirizzo IP del suo computer e contattato da uno studio legale, per conto della casa produttrice del file, con l’accusa di aver violato le leggi sul diritto d’autore. Per evitare la causa in tribunale, con sanzioni che possono arrivare a 150mila dollari anche per un singolo file, gli avvocati offrono all’utente la possibilità di patteggiare, in cambio di alcune migliaia di dollari. Nella maggior parte dei casi, l’utente accetta. La pratica, che aveva finora come oggetto la presunta violazione di diritti d’autore su film e musica, ha trovato un nuovo terreno di applicazione nel cinema porno.

Businessweek cita il caso dello studio legale Prenda, specializzato nel “copyright trolling” sul porno. Dal 2010 la “Prenda Law” (sotto diversi nomi) ha minacciato di citare in giudizio oltre 25mila persone, su tutto il territorio degli Stati Uniti, per download di film pornografici prodotti dalla Lightspeed Media, una società dell’Arizona, e da altre aziende simili. Lo studio avviava un’azione legale preliminare, indicando soltanto l’indirizzo IP dell’utente e chiedendo ai giudici di costringere i provider a rivelarne l’identità, in nome delle pretese violazioni. Lo studio Prenda pubblicava poi nome e cognome degli accusati sul proprio sito internet, con un link alla causa. Da quel momento in avanti, chiunque avesse cercato su Google il nome di quella persona avrebbe potuto sapere del film porno scaricato illegalmente (titolo incluso). Molte delle persone coinvolte hanno preferito patteggiare e firmare un assegno da 4mila dollari, nessuno è mai stato poi portato davvero in giudizio.

Essendo il consumo di pornografia decisamente diffuso e circondato da riprovazione morale, la forma ricattatoria del sistema del “copyright trolling” si è rivelata redditizia, innanzitutto per la “Prenda Law”: secondo la rivista Forbes, il patrimonio di uno dei soci fondatori dello studio, John Steele, è salito a 15 milioni di dollari, senza nemmeno bisogno di vincere una causa (bastavano i nomi). Ed è stato un buon affare anche per i clienti: la “Lightspeed Media” ha recuperato così parte del 60 per cento di introiti che dichiara perso a causa di internet, mentre il titolare di un’altra casa di produzione, la “Hard Media”, ha spiegato di aver raccolto circa 200 mila dollari, senza peraltro aver mai saputo quante fossero le cause e contro chi.

Dalla scorsa estate, però, il business di Steele sembra essere arrivato a un punto morto: alcuni avvocati dello studio sono accusati di frode e comportamento deontologicamente scorretto, oltre che di aver rubato l’identità di almeno una persona (con firme false a suo nome) per mascherare lo schema. È emerso che lo studio legale stava creando società di comodo e usando una documentazione falsa per citare in giudizio altre persone. Il caso è finito di fronte al Dipartimento della Giustizia statunitense e la “Prenda Law” è stata condannata a pagare 81.300 dollari in tasse e sanzioni legali. Poco, se si pensa ai guadagni milionari che il meccanismo ha fruttato, ma abbastanza da creare un precedente per future richieste di risarcimento. Nel frattempo, la “Prenda Law” ha cambiato nome in “Anti-Piracy Law Group” e ha abbandonato tutte le cause federali, limitandosi ai tribunali statali, privi di un archivio centralizzato e quindi meno semplici da controllare.

Sul “copyright trolling” l’industria dell’intrattenimento sembra però contare ancora. Soprattutto dopo aver tentato (e fallito) altre strade. Nel 2003, la “Recording Industry Association of America”, che rappresenta circa l’85 per cento delle case discografiche statunitensi, ha portato a processo 35 mila persone per download illegali di musica da programmi peer-to-peer. L’operazione, però, ha avuto dei costi altissimi in termini di immagine, soprattutto quando, ad esempio, un tribunale del Minnesota condannò una madre di famiglia a pagare 220 mila dollari per aver scaricato illegalmente canzoni dei Guns ‘n’ Roses e di Gloria Estefan. Dal 2008, la RIAA ha rinunciato a portare avanti altre cause di questo tipo.

Il “copyright trolling” – offrendo un’apparente scappatoia all’utente colto in flagrante – finora è sembrato meno rischioso. Nel 2010, la “Voltage Pictures”, una casa di produzione cinematografica di Hollywood, ha avviato un’azione legale collettiva contro 24.500 persone per aver scaricato il film “The Hurt Locker” tramite BitTorrent, il servizio peer-to-peer utilizzato da 170 milioni di utenti (e che, dice Businessweek, produce l’11 per cento del traffico totale di internet). Nel corso di un’intervista alla rivista Hollywood Reporter, i legali della Voltage hanno ammesso che l’obiettivo era quello di creare «un nuovo flusso di entrate».

Anche l’editoria ha sfruttato il sistema. Nel 2010, la holding Righthaven ha acquisito i diritti d’autore di alcuni vecchi articoli di un giornale di Las Vegas, accusando 107 blogger di averne copiato alcuni stralci. Il mensile Wired rivelò che la compagnia pretendeva 75 mila dollari da ognuno di loro, offrendo la possibilità di uscirne con un accordo per qualche migliaio di dollari. A fine 2011, dopo aver perso diverse cause (perché è stato accertato che non possedeva i diritti di alcuni articoli contestati) e dopo aver rifiutato di pagare le spese di giudizio, la Righthaven è stata dichiarata insolvente.

In Italia, un tentativo (anche questo sventato) di “copyright trolling” risale al settembre 2006: il “caso Peppermint”, dal nome di un’etichetta discografica tedesca. Con la complicità dei provider e l’utilizzo di software appositi, la Peppermint Jam Records GmbH riuscì a monitorare il download dei propri brani, accusando oltre 3.600 utenti di averli scaricati. Anche qui, prima di arrivare al processo, lo studio legale della società inviava ai presunti trasgressori una lettera, chiedendo la cancellazione immediata dal computer dei file musicali di proprietà della Peppermint e ipotizzando di far cadere le accuse in cambio del pagamento di una somma (330 euro) a titolo di risarcimento forfettario: «Qualora Lei accetti – si leggeva nella lettera – la mia Cliente si dichiara soddisfatta, si impegna a non sporgere denuncia penale nei Suoi confronti e a non agire in sede civile per la violazione commessa. […] Sono convinto che troverà più che ragionevole la transazione propostaLe». Lo studio legale ometteva però di precisare che, somma o no, il reato di duplicazione abusiva sarebbe stato comunque perseguibile d’ufficio. Il tentativo fallì per le violazioni della privacy riscontrate nella condotta della Peppermint, in particolare per le modalità utilizzate per individuare i trasgressori attraverso l’indirizzo IP.

In un primo momento il Tribunale di Roma stabilì che l’IP non fosse tutelato dalla privacy, e potesse quindi essere “intercettato” dalla società svizzera Logistep (per conto della Peppermint) e le generalità dell’utente rese note dai provider. La Peppermint annunciò anche di avere in programma un accordo con la Wind per associare al nome l’indirizzo fisico di ogni consumatore. Successivamente però, con un’altra ordinanza poi confermata definitivamente,  lo stesso Tribunale di Roma mutò orientamento e definì “spionaggio telematico” l’attività della Logistep, dietro pressione delle associazioni di consumatori e del Garante della privacy. Proprio il Garante stabilì, con un provvedimento del 2008, che la Logistep e la Peppermint avessero abusato del software utilizzato per intercettare gli IP degli utenti, oltre ad aver avuto un comportamento non trasparente nei loro confronti. L’utente – ha ribadito il Garante – dev’essere sempre consapevole dell’uso che si fa dei suoi dati. Le due società sono state costrette a cancellarli dagli archivi.