Il 18 gennaio 1943 gli ebrei del Ghetto di Varsavia occupata dai nazisti reagirono per la prima volta alle le violenze e le deportazioni, che riuscirono a impedire resistendo ai tedeschi. Il comandante delle SS ordinò la distruzione del Ghetto, i cui abitanti organizzarono una rivolta che tenne in scacco i nazisti per un mese tra aprile e maggio, prima che il Ghetto fosse raso al suolo e la rivolta si concludesse con l’uccisione di oltre diecimila ebrei e la deportazione di circa 50 mila. Marek Edelman (1922-2009) fu tra i capi della rivolta e ne raccontò e scrisse in più occasioni nei decenni successivi. Nel 2009 Sellerio pubblicò una sua raccolta di storie provenienti da quei giorni intitolata C’era l’amore nel ghetto. La rivolta del Ghetto di Varsavia è diventata per la storia ebraica e mondiale un episodio simbolico di resistenza alle persecuzioni antisemite.
La signora Tenenbaum, infermiera dell’ospedale Bersohn e Bauman, era amica dell’avvocato Berenson. Tutti i giorni gli serviva il pranzo. Dopo il pasto il signor avvocato si appisolava, allora arrivava la figlia di lei, una diciassettenne garbata, ben pettinata e lisciata, con una camicetta bianca inamidata. Aiutava sua mamma a pulire.
Si concluse la Grande Operazione di sgombero e 44 mila persone ricevettero il numero della vita. Tra loro la signora Tenenbaum. Quando all’ospedale tutti coloro che avevano il numero si misero dal lato «della vita», qualcuno si accorse che la signora Tenenbaum era nel letto, e sul suo tavolino c’erano delle bottigliette vuote di luminal, una lettera e il suo numero. Nella lettera la signora Tenenbaum diceva che il suo numero lo dava a sua figlia e che si toglieva la vita. Non starò a raccontare nei dettagli le divergenze tra i medici sulla scelta di salvare o meno la signora Tenenbaum.
Alcuni erano dell’opinione che bisognasse salvarla, altri invece che no, perché tale era la sua volontà. E così è stato. Deda, era questo il nome della figlia, ebbe dunque il numero della vita. Una ragazzina così timida rimase sola. E d’improvviso s’innamorò di un ragazzo. Si vede che aveva un po’ di soldi, perché il ragazzo riuscì a trovare una casa per loro nella parte ariana della città. Lei sbocciò in quell’amore. Per tre mesi visse con quel ragazzo in grande felicità nell’appartamento della parte ariana.
Solo quell’amore, nient’altro traspariva da lei. Chiunque, senza eccezione, la vide allora, diceva che irradiava felicità. A Marysia, che andava a trovarla, diceva che erano i mesi più felici della sua vita. Il calore che le dava il suo ragazzo le fece dimenticare il ghetto. Tre mesi durò quella felicità. Poi – forse erano finiti i soldi – i padroni di casa consegnarono lei e il suo ragazzo.
Tra le deportazioni di gennaio e l’aprile del ’43 stavamo tornando, attraverso il quinto piano di un grande palazzo con enormi appartamenti, dall’operazione al panificio (ogni panettiere doveva consegnarci 40 pagnotte di pane e questo di solito avveniva verso l’alba alla fine della cottura). Tutte le porte degli appartamenti, anche sui pianerottoli, erano aperte per facilitare il passaggio: entri in un appartamento dalla porta principale, lo attraversi tutto, esci sulla scala di servizio e da lì passi nell’appartamento successivo. In corridoi ed anticamere c’erano sistemati dei letti.