Ieri il New York Post ha pubblicato in prima pagina la fotografia degli ultimi istanti di vita di un uomo caduto nei binari della metropolitana di New York e travolto dall’arrivo del treno. L’immagine ha riaperto il dibattito, mai esaurito, sul rapporto tra fotografia ed etica, sul ruolo del fotografo e il comportamento più giusto da tenere quando ci si trova a dover scegliere se scattare una fotografia o provare a salvare chi si ha di fronte.
(Il New York Post e l’uomo travolto dalla metropolitana)
La storia di questo dibattito – che ogni volta vede scontrarsi le posizioni di colpevolisti e innocentisti – è lunga quanto la storia della fotografia. In effetti nel momento in cui l’evoluzione tecnica permise di registrare la realtà con un gesto immediato, i soggetti e le storie catturate nelle immagini assunsero da subito il valore di documento indiscutibile. Bisogna però ricordare che per diverse ragioni – come il fatto che dietro la macchina si trova una persona che sceglie l’inquadratura – la fotografia non può intendersi come un documento in assoluto. I fotografi, con le immagini, hanno da sempre mostrato guerre, disastri naturali, eventi di cronaca. Spesso hanno assistito a risse, sparatorie, litigi familiari e drammi umani con l’obiettivo di raccontare una storia, di mostrarci quell’evento.
Una famosa fotografia scattata da Alexander Gardner ritrae il condannato a morte Lewis Paine poco prima di essere ucciso con l’accusa di essere uno dei cospiratori dell’omicidio di Abraham Lincoln, nel 1865. La fotografia fece riflettere l’intellettuale francese Roland Barthes sulla confusione tra reale e vivente nelle fotografie: Lewis Paine sta per essere ucciso ma nella realtà è già morto. Barthes scrive che «leggo nello stesso tempo: questo sarà e questo è stato; osservo con orrore un futuro anteriore di cui la morte è la posta in gioco. Dandomi il passato assoluto della posa (aoristo), la fotografia mi dice la morte al futuro. Ciò che mi punge, è la scoperta di questa equivalenza».
La fotografia racconta spesso situazioni di guerra e disastri e per questo ha avuto spesso a che fare con la morte. È il caso della storia di Omayra Sanchez, una ragazza rimasta bloccata nelle macerie causate dall’eruzione del vulcano Nevado del Ruiz, in Colombia, nel 1985. L’eruzione aveva ucciso 24 mila persone. La storia ricorda la vicenda di Alfredino Rampi e Vermicino, raccontata ampiamente da giornali e televisioni italiani dell’epoca. Omayra è intrappolata da due giorni, i soccorritori attendono l’attrezzatura per il salvataggio – che non arriverà in tempo. È presente anche il fotografo Frank Fournier: Omayra guarda in macchina, Fournier scatta la fotografia. Sfinita, la ragazza muore per un attacco cardiaco. Fournier vinse grazie alla fotografia il prestigioso World Press Photo, ma rimase segnato dall’esperienza e da numerose domande che accompagnano spesso i fotografi in situazioni simili: Si può mostrare la sofferenza senza venir meno al rispetto? Ci ricorderemmo ancora della tragedia se questa fotografia non ci avesse sconvolto a tal punto?