Ashlyn Blocker è una ragazza di 13 anni che vive a Patterson, un paesino della Georgia di 700 abitanti a quattro ore di macchina da Atlanta. A causa di una mutazione genetica, non sente il dolore e non l’ha mai sentito in vita sua. Alla sua storia e alla sua vita quotidiana, il giornalista Justin Heckert ha dedicato pochi giorni fa un lungo articolo sul New York Times Magazine.
Il caso di Ashlyn è una sorta di dimostrazione che la vita quotidiana è una specie di percorso a ostacoli per evitare il dolore fisico, anche se gran parte dei comportamenti che mettiamo in atto per farlo sono così naturali e rodati dall’esperienza che non ci facciamo caso. Ma per Ashlyn non è così, come dimostra la scena che apre l’articolo di Heckert. In una tranquilla sera qualsiasi, Ashlyn sta cuocendo gli spaghetti nella cucina della casa in cui abita con i suoi genitori, a due passi da sua mamma: il cucchiaio con cui li sta mescolando cade nell’acqua bollente e lei, senza pensarci, infila la mano destra dentro la pentola ed estrae il cucchiaio. Poi rimane, come pensosa, a fissare la mano ustionata e chiama la mamma.
La madre, Tara, le ha insegnato naturalmente che non deve mettere le mani nell’acqua bollente: ma questa, per Ashlyn, è appunto una cosa che deve essere insegnata. È una nozione che può semplicemente sfuggire di mente, come le tabelline o gli affluenti del Mississippi, e non c’è niente che al momento di infilare la mano in una pentola d’acqua a 100 gradi gliela ricordi.
Quando alcuni anni fa il padre di Ashlyn, John, si piantò un chiodo nel pollice mentre costruiva un pollaio, Ashlyn capì istintivamente che qualcosa non andava e gridò. Ma non capì perché la faccia di suo padre diventò rossa, perché cominciò a urlare e ad agitare la mano per aria. Per quello che le suggerisce il suo corpo, un chiodo nel dito è qualcosa di “irregolare” e che va tolto, ma niente più di questo: per anni ha dovuto osservare e studiare le espressioni che gli altri fanno quando sentono dolore.
John e Tara si accorsero lentamente della strana condizione della figlia, che al momento della nascita, a differenza della maggior parte degli esseri umani, non pianse. Nei mesi successivi, qualunque situazione che avrebbe causato grandi pianti in un neonato – dalle abrasioni causate dei pannolini troppo stretti ai morsi sulla lingua dati con i dentini che stavano spuntando – lasciavano la bambina sempre sorridente. Ma vedere ferite sul corpo della loro figlia e accorgersi che non causavano le normali reazioni per un neonato spaventò parecchio i suoi genitori, che la portarono dai medici.
Finalmente, dopo diversi mesi di analisi, i dottori di una clinica pediatrica arrivarono alla diagnosi: «insensibilità congenita al dolore», parole così strane che Tara se le fece scrivere dietro a un biglietto da visita per paura di dimenticarsele. Tara, che verso la figlia ha comunque sviluppato tutta l’apprensione e l’attenzione che la sua condizione richiede, non è mai stata convinta delle spiegazioni più scientifiche e a volte pensa che forse è stata causata da hot dog mangiati a un chiosco mentre era incinta.
La condizione di Ashlyn è così rara che i pediatri che la diagnosticarono dissero solo di tenere costantemente d’occhio la bambina. Per il resto, non avevano molte indicazioni da dare. La famiglia Blocker sostituì tutti i mobili di casa che avevano spigoli troppo in vista e riempì i pavimenti di tappeti. Nei primi anni di vita di Ashlyn, non la lasciarono andare sui pattini né in bicicletta.
Nonostante tutte le precauzioni, quasi ogni giorno c’era qualche situazione potenzialmente pericolosa: una volta si accorsero solo dopo due giorni che la bambina si era rotta la caviglia. Anche l’abitudine dei bambini di sfregarsi gli occhi, senza i meccanismi di limitazione dati dal dolore, è molto pericolosa, e a sei anni Ashlyn soffrì di una grave abrasione alla cornea. All’asilo un educatore doveva seguire esclusivamente lei per assicurarsi che non si facesse male inavvertitamente.
Quando Ashlyn aveva 5 anni, i Blocker decisero che volevano trovare qualcun altro nel mondo che fosse nella stessa condizione della figlia. Parlarono con il giornale locale, che pubblicò un articolo su di lei nell’ottobre del 2004. L’agenzia di stampa Associated Press se ne accorse e in poche settimane la sua storia diventò famosissima: dopo essere finita sull’homepage di MSN negli Stati Uniti (di fianco a un articolo su George Bush e John Kerry, che si stavano sfidando alle presidenziali) si interessassero a lei le televisioni di tutto il mondo, dalla BBC britannica a una televisione giapponese.
Un articolo su di lei finì anche nell’edizione di fine gennaio 2005 di People, quella con Brad Pitt e Jennifer Aniston in copertina sotto il titolo “Brad & Jen: Perché si sono lasciati”. A quel periodo risalgono anche gran parte delle foto che la ritraggono.
Se da una parte tutta quell’attenzione stremò la famiglia Blocker, stanca di interviste, telecamere per la casa e titoli su “La bambina che non sente dolore”, dall’altro lato tutta quella notorietà permise che alcuni scienziati si interessarono seriamente alla rara condizione di Ashlyn. Tra questi il dottor Roland Staud dell’Università della Florida, che conduceva da anni ricerche sul dolore cronico e che negli anni ha sviluppato un sentimento quasi paterno nei confronti della bambina.
Staud fece diverse analisi sulla condizione di Ashlyn e trovò alla fine che il suo gene SCN9A, che è parte del patrimonio genetico umano sul cromosoma 2, conteneva due mutazioni. Altre mutazioni dello stesso gene causano le sindromi da dolore acuto e da dolore cronico. Il dottor Staud ritiene che, studiando il tipo di mutazioni di Ashlyn, sia possibile trovare terapie analgesiche per alleviare anche quelle altre condizioni.
Dal punto di vista fisico, i nervi che trasmettono il dolore mandano segnali elettrici al cervello quando entrano in contatto con qualcosa di molto caldo o molto tagliente, causando la risposta del cervello: spostare il braccio o alzare il piede, per esempio. I segnali elettrici sono trasmessi attraverso canali di ioni di sodio (atomi di sodio caricati positivamente) le cui “istruzioni” sono contenute appunto nel gene SCN9A. La mutazione di Ashlyn le impedisce di creare quei canali, per cui gli impulsi elettrici che normalmente raggiungono il cervello non si producono mai.
Ashlyn sente il caldo e il freddo, ma non alle temperature più estreme, quelle che normalmente scatenano le reazioni automatiche di ritirare le mani per evitare ustioni. Sente il solletico e la pressione sulla superficie corporea e riesce a distinguere un tocco leggero dalla puntura di uno spillo. La sua vita quotidiana è un succedersi di situazioni potenzialmente pericolose: dalle piastre di metallo rovente per stirarsi i capelli agli urti contro qualsiasi oggetto, che possono causare emorragie di cui Ashlyn non ha modo di accorgersi. Oppure si pensi, per esempio, a un’appendicite, di cui sarebbe impossibile accorgersi in tempo. Persino un elastico per i capelli troppo stretto è potenzialmente una minaccia, dato che Ashlyn non ha modo di accorgersene fino a quando non inizia a sanguinare. Non può indossare orecchini o braccialetti in metallo.
Un’altra caratteristica particolare di Ashlyn è che non riesce a sentire gli odori, fatto che inizialmente era sfuggito ai suoi genitori. Lo hanno notato solo l’anno scorso, vedendo che si metteva quantità molto abbondanti di profumo: si scoprì che le piaceva soprattutto la nuvola di spray. Secondo i medici, la cosa si spiega con il fatto che il cervello usa gli stessi canali per sentire gli odori e per sentire il dolore.
Ma il dolore del corpo non è solo legato a urti e ferite, e segue anche percorsi più misteriosi. A tutti è capitato, nella vita, di sentire fisicamente un dolore che viene dalle nostre emozioni: «Mi ha spezzato il cuore», si dice di una delusione amorosa, traducendo in un’immagine molto concreta una pena che non è provocata dall’interazione del nostro corpo con l’ambiente. Nel caso di Ashlyn, ci si può chiedere se l’incapacità di provare il dolore fisico abbia delle conseguenze sullo sviluppo emotivo, i cui meccanismi neuronali non sono ancora pienamente compresi.