I manager italiani guadagnano troppo?

Ogni anno i giornali pubblicano le classifiche dei loro stipendi, ma la cosa difficile è trovare una spiegazione sul perché siano pagati tanto, anche quando le loro società vanno male

di Davide Maria De Luca

Pochi giorni fa Gianni Dragoni ha pubblicato sul Sole 24 Ore la classifica degli stipendi dei top manager (amministratori delegati e presidenti) delle aziende italiane quotate in borsa e dell’andamento delle loro azioni. La crisi ha molto ridotto sia i rendimenti che i valori delle azioni, ma gli stipendi dei top manager sono comunque aumentati. La media delle loro retribuzioni nel 2010 era di 3 milioni di euro. Nel 2011 è passata a 3,5 milioni di euro.

Questo tipo di classifiche viene pubblicato in Italia quasi ogni anno, quando le società quotate in borsa rendono pubblici i loro bilanci, e ogni anno suscitano sempre molte polemiche. Sergio Marchionne, ad esempio, è stato uno dei manager criticati più a lungo perché, secondo alcuni calcoli, guadagna 6.400 volte lo stipendio di un operaio FIAT.

Ma non ci sono soltanto gli stipendi dei manager di livello più alto: secondo una ricerca OCSE, i dirigenti italiani di qualunque livello sono i più pagati di tutto il mondo, con una media di circa 300 mila euro l’anno. Queste classifiche suscitano un’indignazione che per qualche settimana tiene banco negli editoriali e nei dibattiti televisivi, ma lasciano spesso senza risposta la domanda centrale: perché in Italia i manager delle società quotate sono pagati così tanto, anche quando le cose vanno male?

Lo stipendio dei manager
I manager sono, come gli impiegati e gli operai, dei dipendenti delle aziende e i loro stipendi vengono decisi dai proprietari dell’azienda. Come spesso sostengono anche gli stessi autori delle classifiche, si tratta di decisioni prese da privati (i padroni dell’azienda) che decidono quanto pagare i manager con i propri soldi. Tutto legale, anche se possibilmente “immorale”. Ma la spiegazione di questi stipendi così alti non risiede soltanto in una maggiore “immoralità” dei proprietari di azienda italiani rispetto a quelli del resto del mondo. C’è un sistema, che causa questi stipendi.

Decidere quanto pagare i propri manager è una questione delicata: stipendi troppo bassi rispetto alla concorrenza rischiano di attirare amministratori non abbastanza qualificati, mentre stipendi troppo alti rischiano di danneggiare gli utili degli azionisti (cioè dei padroni dell’azienda). Per trovare un equilibrio tra questi due estremi, secondo la maggior parte delle ricerche, bisogna che ci sia un efficace controllo da parte degli azionisti di maggioranza combinato con un sistema legale che protegga gli azionisti di minoranza.

Nei paesi anglosassoni questo sistema è garantito dal fatto che gran parte delle grandi imprese sono delle public company, cioè hanno un azionariato molto diffuso, senza un chiaro azionista di maggioranza. Nel mondo tedesco e giapponese, invece, questo sistema è garantito dalla cogestione, cioè la partecipazione di sindacati e operai alla gestione e agli utili dell’azienda. In Italia, invece, il sistema di governance più diffuso è quello del controllo familiare che non solo incentiva a pagare molto i manager, ma spesso crea un incentivo a pagarli anche di più quando le cose vanno male.

Manager in famiglia
Molto spesso nelle aziende familiari non esiste una distinzione tra i proprietari (gli azionisti) e gli amministratori (i manager). I due ruoli sono ricoperti dalle stesse persone, cioè membri della famiglia. In altre parole, la famiglia che controlla l’azienda con il 50,1% delle quote, può decidere in autonomia (senza che gli azionisti di minoranza possano opporsi) di nominare tutto o parte del management pescando dai membri della famiglia stessa. In questa situazione la famiglia può decidere (in quanto azionista) di aumentarsi gli stipendi (in quanto manager).

Questa situazione si è vista spesso nel caso delle stock option, un tipo di incentivo al management. Le stock option funzionano così: i proprietari promettono ai manager un certo numero di azioni della società in cambio del raggiungimento di alcuni obbiettivi industriali. Il manager così non solo viene incentivato a raggiungere l’obiettivo, ma ricevendo in pagamento delle azioni della società viene disincentivato a raggiungere quegli obiettivi con azioni che a breve-medio termine potrebbero danneggiare l’azienda (fare questo abbasserebbe il valore delle azioni, diminuendo il suo premio).

Ma qual è il senso delle stock option quando proprietario e manager sono la stessa persona o appartengono alla stessa famiglia? Un manager deve essere incentivato a svolgere un buon lavoro e deve ricevere dei premi per evitare che passi alla concorrenza. Ma il proprietario dell’azienda non può passare alla concorrenza e dovrebbe già essere incentivato a fare un buon lavoro, poiché dall’andamento dell’azienda dipendono il valore e il rendimento delle azioni dell’azienda che già possiede.

Così, le stock option diventano un sostituto per aumentare i dividendi, o sostituirli nel caso l’azienda stia andando male. Tutto a scapito del restante 49,9% degli azionisti che non appartiene alla famiglia. Si tratta del caso accaduto all’impero della famiglia Ligresti. Quindi, più l’azienda va male (meno utili distribuisce) più i proprietari sono incentivati ad alzarsi lo stipendio nel loro ruolo di manager.

Incentivi alla fedeltà
Non tutte le aziende di proprietà familiare sono guidate dai membri stessi della famiglia. La situazione di un top management completamente in mano ad una famiglia è molto rara, anche perchè le posizioni da occupare e le competenze richieste spesso sono superiori ai numeri e alle risorse di una sola famiglia. Sergio Marchionne guida la FIAT degli Agnelli, Fausto Marchionni guidava la Fonsai della famiglia Ligresti e oltre a Tronchetti Provera, nell’amministrazione di Pirelli siedono molti altri manager. Come mai tutti quanti, nonostante non appartengano alla famiglia che esercita il controllo dell’azienda, ricevono comunque stipendi altissimi?

La situazione che abbiamo descritto prima, con una sola famiglia che detiene il controllo totale di un’impresa con il 50% più uno delle azioni è in realtà molto rara anche in Italia. Le imprese italiane sono in genere controllate da catene di società al cui vertice c’è una holding controllata da una famiglia. Questo sistema si chiama “scatole cinesi” e serve, in sostanza, a risparmiare denaro. Se un famiglia controlla il 51% di una società, che controlla il 51% di un’altra società che a sua volta controlla il 51% di un’altra società, la famiglia può esercitare il controllo dell’ultima azienda possedendo solo una frazione delle sue azioni.

Spesso, poi, questa catena di società è controllata da una serie di partecipazioni incrociate e alleanze con altri gruppi che permettono alla famiglia in questione di detenere anche meno del 51% delle azioni di ognuna di quelle società. Ad esempio una certa famiglia potrebbe avere solo il 20% di una società in un qualsiasi punto della catena, mentre famiglie o gruppi industriali alleati ne detengono il restante 31%. La famiglia in questione avrebbe in mano altrettante partecipazioni strategiche nei gruppi alleati. In questo modo si riescono a controllare grandi gruppi con poche azioni, difendendosi nel contempo da acquisizioni ostili.

Avere poche azioni, però, significa anche avere meno utili quando l’azienda va bene (gli utili sono distribuiti in base al numero di azioni). Le famiglie che guidano le aziende quindi, non sono interessate tanto all’andamento della loro azienda, quanto a mantenerne il controllo. Che significa, ad esempio, la creazione di una rete di potere o la possibilità di sistemare membri della famiglia in posti chiave dell’azienda dove ricevere stipendi altissimi. Per fare questo però c’è bisogno di manager fedeli che, quindi, vengono incentivati non in base alla loro bravura nel portare valore all’azienda, ma in base alla loro fedeltà alla famiglia che la controlla.

Ma attirare manager con queste premesse non è facile, come ha scritto ad esempio Filippo Astone nel suo libro Gli affari di famiglia. Un manager con un solido curriculum rischia molto ad amministrare un’azienda come quelle che abbiamo descritto. Gestire un’azienda che paga magri dividendi o che addirittura rischia di fallire non è un buon biglietto da visita per cercare un altro lavoro. La famiglia alla guida dell’azienda, poi, potrebbe decidere di liberarsi di lui per motivi indipendenti dalla sua bravura nel generare valore e reddito.

Quindi, per incentivare un manager a guidare una di queste aziende familiari e per mantenerlo fedele agli scopi della famiglia che la controlla, c’è bisogno di uno stipendio molto più alto di quello che il manager prenderebbe in un’azienda sana, dove potrebbe guadagnare premi e compensi per aver generato reddito e valore. Quando l’azienda va male, quindi, questo tipo di manager va incentivato ancora di più a restare al suo posto e a non disertare passando alla concorrenza.