• Mondo
  • Mercoledì 23 maggio 2012

Egiziani

Le foto raccolte durante le riprese per un documentario sull'Egitto, un anno dopo la rivoluzione

Tra gennaio e febbraio Saverio Pesapane, artista e filmmaker, insieme ad Angelo Boris Boriolo ha passato due mesi in Egitto per girare un documentario che è stato mostrato in anteprima alla Biennale dell’Architettura di Rotterdam all’interno del progetto 900 Km Nile City curato da Pier Paolo Tamburelli, realizzato insieme agli studi di architettura Baukuh, Atelier Kempe Thill e GRAU, a ai fotografi Stefano Graziani e Bas Princen.

Il film, di cui è possibile vedere un trailer, è stato realizzato nella valle del Nilo, dal Cairo ad Aswan, un anno dopo l’inizio della rivoluzione egiziana. Il materiale farà parte di un progetto più ampio sulle elezioni presidenziali nel 2012 in Egitto, Russia e Stati Uniti.
Durante il suo viaggio Pesapane ha realizzato una serie di ritratti delle persone incontrate nelle città e nei paesi che ha attraversato e ha scritto un resoconto del periodo passato al Cairo ad un anno esatto dalla rivoluzione.

Giovanna Silva ha fotografato la valle del Nilo concentrandosi sul paesaggio del governatorato di Sohag.

Arriviamo al Cairo nella serata del 24 gennaio, e in città sta piovendo.
L’evento è più unico che raro, e nel caffè dove ci incontriamo con Mazin l’acqua è ovunque, entra fin dentro le cucine a causa della soglia d’ingresso che non è pensata per bloccarla, e siamo circondati da camerieri che la spazzano fuori, e che poi costruiscono una diga di sabbia sulla porta.
Mazin, un amico architetto, ci racconta che per il giorno dopo si aspetta un’enorme manifestazione, sembra che l’intero Egitto voglia parteciparvi. Gli raccontiamo che il tassista che ci ha portato dall’aeroporto ad Heliopolis, dove ci troviamo ora, ci ha detto che lui il giorno dopo non sarebbe uscito di casa, raccomandandoci di fare lo stesso, ma Mazin ride e dice che le eccezioni ci sono dappertutto.

Mazin ci accompagna in auto all’hotel a Garden City, a pochi passi da Tahrir, e così decidiamo di passare dalla piazza. Il centro di piazza Tahrir, che in realtà è una rotonda automobilistica, è occupato da un accampamento permanente dei manifestanti, e questa sera l’accesso alle automobili è bloccato, mentre intorno alla piazza ci sono decine di venditori ambulanti di bandiere ed ombrelli. Prima della rivoluzione i venditori ambulanti praticamente non esistevano, è un fenomeno del tutto nuovo qui. L’atmosfera è quella di una grande festa, sembra la preparazione pre-partita all’esterno di uno stadio.
Ma Mazin ci racconta che quella è solo l’impressione superficiale, ed in realtà i vari movimenti coinvolti nelle proteste non hanno voglia di festeggiare, sono molto fermi nel dire che non ci sono anniversari da celebrare, perchè la rivoluzione non è finita, perchè dopo Mubarak l’esercito ha preso il potere e non é ben chiaro quando lo lascerà, perchè dopo un’iniziale periodo di fiducia della popolazione, a seguito delle richieste sempre piú pressanti di un autentico rinnovamento nella classe dirigente del paese l’esercito ha reagito alle nuove proteste con violenze uguali a quelle organizzate da Mubarak nella rivoluzione di gennaio 2011. Mazin Quello che succederà, secondo Mazin, sarà una grande manifestazione contro lo SCAF, il Consiglio Supremo delle Forze Armate, che guida il paese dall’11 febbraio 2011, data delle dimissioni di Mubarak.

“Non c’è niente da festeggiare” dice Mazin.
Un anno prima, dal 25 Gennaio all’11 Febbraio 2011 piazza Tahrir è stata occupata da centinaia di migliaia di persone per chiedere le dimissioni di Mubarak. Il dittatore che ha governato il paese per quasi 30 anni si è dimesso dopo 18 giorni di violenta repressione delle proteste nate dallo scontento di una popolazione spesso ridotta all’indigenza, che dopo anni di manifestazioni e scioperi in tutto il paese si è organizzata anche grazie alla spinta di una giovane generazione di egiziani che utilizzando i social network ha saputo organizzare la piazza durante le rivolte.

La mattina del 25 Gennaio 2012 quando arriviamo a Tahrir tutte le vie d’accesso sono presidiate dal servizio d’ordine organizzato dal Fratelli Musulmani, il partito che pochi giorni prima ha vinto le elezioni con il 47 per cento dei voti. Le elezioni parlamentari sono state lunghe e complesse, il paese è stato diviso in zone nelle quali si è votato non contemporaneamente, ed una delle storture più evidenti è che tra uno scrutinio e l’altro sono stati resi noti i risultati parziali. Una procedura inaccettabile in qualunque paese occidentale.

Il servizio d’ordine che controlla l’accesso alla piazza è formato da due cordoni di persone che si tengono sottobraccio. Il primo controlla i passaporti, il secondo effettua una veloce perquisizione.
Superati i controlli, entriamo a Tahrir dal lato del ponte Qasr Al Nil, che durante i 18 giorni del 2011 fu teatro di una delle repressioni più dure da parte della polizia, quando durante il giorno rimasto famoso come “venerdì della rabbia” i manifestanti marciarono verso la piazza dopo le preghiere del venerdì, e furono attaccati dagli idranti della polizia mentre pregavano sul ponte, per poi essere investiti dai blindati lanciati sulla folla. Più di 100 persone morirono solo quel giorno. La strada che dal ponte porta alla piazza è gremita di manifestanti, e impieghiamo almeno trenta minuti per arrivare di fronte alla sede della Lega Araba, che si trova a metà di questa strada, a poche decine di metri dal ponte. Seguiamo il corteo con l’enorme obelisco egizio in cartapesta dove sono scritti i nomi delle centinaia di morti in un anno di scontri.
Dall’altra parte della piazza c’è Mohammed Mahmoud, la strada dove ci sono i graffiti che ricordano le vittime del “cacciatore di occhi”. Durante le proteste dello scorso anno un cecchino sparava proiettili di gomma mirando agli occhi dei manifestanti, e decine di vittime hanno perso l’occhio colpito. Questa strategia è stata usata tanto da Mubarak quanto dallo SCAF, e la prova vivente di questo accanimento è Ahmad Hararah, rimasto colpito a gennaio durante le proteste contro Mubarak ad un occhio, e a Novembre all’altro, rimanendo cieco.
Mohammed Mahmoud è anche la strada che da piazza Tahrir porta al Ministero dell’Interno, ed è proprio qui che la polizia ha costruito due dei muri di cemento per bloccare l’avanzata dei manifestanti. Durante gli scontri è stato uno dei nodi cruciali, da un lato c’era la polizia che impediva ai manifestanti di andare verso i ministeri, dall’altro i manifestanti che impedivano alla polizia di invadere la piazza. La strada porta ancora i segni delle battaglie di quei giorni, ma nel frattempo i graffiti sono stati coperti, i muri dell’American University sono stati imbiancati, e quella rappresentazione così efficace degli orrori del cacciatore di occhi è stata cancellata.

Il 29 Gennaio incontriamo Ahmed Maher, il leader del movimento “April 6”, un gruppo nato per appoggiare una protesta contro le elezioni di Mubarak che si tenne ad El-Mahalla El-Kubra, una città sul delta del Nilo, il 6 aprile del 2008, avvenimento che secondo molti fu il vero inizio delle proteste che portarono alla nascita dei movimenti della primavera araba del 2011.Il movimento “April 6” ha avuto un ruolo centrale nella rivoluzione egiziana, ed é stato candidato al Nobel per la pace del 2011. Ahmed Maher ci racconta dell’errore di abbandonare la piazza dopo le dimissioni di Mubarak, delle illusioni che quei momenti generarono nel paese, e ci dice che se fossero rimasti a presidiare la piazza si sarebbero potuti evitare gli scontri dei mesi successivi, si sarebbe potuto costruire dal basso un percorso democratico, evitando di lasciare un potere eccessivo allo SCAF e a Tantawi, comandante in capo dell’esercito egiziano e, dall’11 febbraio 2011, Presidente de facto e traghettatore del paese verso le elezioni presidenziali. Ahmed ci parla anche della grande anomalia di questa rivoluzione, che non ha prodotto leader in grado di proporsi come candidati presidenziali, ipotesi per la quale lui prevede tempi molto più lunghi. Ahmed Maher è nato il 2 Dicembre 1980 ad Alessandria, vive e lavora al Cairo, ed è un ingegnere civile e un rivoluzionario candidato al premio Nobel per la pace. Vederlo parlare nel suo studio pieno di faldoni e con un’atmosfera da ufficio del catasto italiano è straniante.

Il primo Febbraio ceniamo in un ristorante vicino Tahrir, e all’improvviso arriva la notizia che a Port Said, allo stadio, durante la partita tra Al Ahly, squadra del Cairo, e Al Masry, squadra di Port Said, ci sono stati degli scontri tra le tifoserie, si parla di molti feriti e forse dei morti. La notizia attraversa la sala affollata nella quale ci troviamo, e mano a mano che passano i minuti la situazione sembra peggiorare, i numeri dei morti e dei feriti aumentano fino a raggiungere l’incredibile cifra di 74 morti e centinaia di feriti, e allora decidiamo di andare in piazza. Tahrir a prima vista sembra tranquilla, non diversa da come l’avevamo lasciata qualche ora prima, ma corrono voci di un’organizzazione delle tifoserie per una manifestazione davanti al Ministero dell’Interno, e in qualche decina di minuti dal ponte Qasr Al Nil vediamo arrivare un corteo di tifosi che attraversa la piazza e si dirige in Mohamed Mahmoud. Sono i tifosi dello Zamalek, l’altra squadra del Cairo, acerrima avversaria dell’Al Ahly, che provengono dalla loro partita, durante la quale una parte delle tribune è stata incendiata in seguito alla notizia degli scontri a Port Said, e che ora insieme a gruppi di sostenitori dell’Al Ahly sfogano la loro rabbia verso la giunta militare.
Quello di cui tutti sono convinti è che l’esercito abbia preparato le condizioni per questa strage, mandando un esiguo numero di poliziotti a presidiare quella che tradizionalmente è una partite pericolosa dal punto di vista dell’ordine pubblico. I video che mostrano i pochi poliziotti presenti allo stadio assistere a braccia incrociate ad un autentico massacro che accade sotto i loro occhi sembrano dare ragione all’intuizione delle persone in strada. Il nodo cruciale è che la tifoseria organizzata dell’Al Ahly ha avuto un ruolo chiave nelle dinamiche della piazza durante la rivoluzione, e i fatti del 1 febbraio a Port Said vengono subito letti come un modo per far pagare agli ultrà la loro scelta di essersi schierati dalla parte dei rivoluzionari.
Ci passa davanti agli occhi una manifestazione che ha un’aria molto diversa da quelle dei giorni precedenti.
Dal giorno successivo tutto cambia. Tahrir si trasforma, ancora una volta, nel centro organizzativo della rivolta, dalla quale partono le persone dirette attraverso Mohammed Mahmoud, al Ministero dell’Interno, per chiedere le dimissioni del ministro.

Ian Lee è un reporter della CNN che abbiamo conosciuto appena arrivati al Cairo, e che ci ha spiegato molto dell’anno trascorso dall’inizio delle rivolte, e il 3 febbraio, prima di incontrarlo ancora in piazza, leggiamo un suo messaggio su twitter, che dice: “I saw the army putting this wall up and I thought they’d take it down. I was wrong”. Ci muoviamo verso Mohamen Mahmoud, e davanti a noi i manifestanti stanno letteralmente buttando giù con le mani il muro fatto di enormi blocchi di cemento. La tregua è definitivamente finita, e per diversi notti Tahrir torna ad essere illuminata dai lampeggianti delle ambulanze, mentre la moschea che si trova sulla piazza è trasformata in un ospedale da campo. Ma dopo qualche giorno si inizia ad avvertire la stanchezza, quella dei manifestanti, ma anche quella di un paese che non se la sente di continuare ad affrontare una nuova ondata di violenze, e le proteste si placano e si spengono dopo pochi giorni, e dopo diverse centinaia di feriti.

L’11 sera, anniversario delle dimissioni di Mubarak, la piazza è tranquilla, l’agitazione a Tahrir sembra quasi il normale disordine di una qualunque piazza del Cairo, l’idea di non festeggiare una rivoluzione che non é conclusa ha convinto tutti, almeno questa sera.
Quando arriviamo in Mohamed Mahomud scopro la riapparizione dei graffiti. Stavolta peró sui muri ci sono dei ragazzi con delle ali d’angelo, e una serie di volti incorniciati in memoria dei tifosi morti allo stadio.
Torniamo in piazza per un ultimo giro, e tutti parlano delle elezioni, di quando ci saranno, e di cosa succederà dopo.

Parlano tutti del futuro.

Tag: egitto