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  • Martedì 15 maggio 2012

La rana italiana

Marco Simoni ha scritto un libro sulle prospettive e le opportunità che abbiamo di cavarcela, se proviamo a capire come stanno le cose

di marco simoni

A cat shows interest in a frog sitting on a rock in the eastern German town of Sieversdorf on July 27, 2010. AFP PHOTO / PATRICK PLEUL GERMANY OUT (Photo credit should read PATRICK PLEUL/AFP/Getty Images)
A cat shows interest in a frog sitting on a rock in the eastern German town of Sieversdorf on July 27, 2010. AFP PHOTO / PATRICK PLEUL GERMANY OUT (Photo credit should read PATRICK PLEUL/AFP/Getty Images)

Per trovare la luce in fondo al tunnel
bisogna prima trovare il tunnel.

A fine Ottocento alcuni scienziati osservarono che se una rana viene gettata in una pentola d’acqua bollente, i suoi riflessi la spingeranno a saltar fuori. Se invece la stessa rana viene immersa in una pentola d’acqua fredda sotto la quale viene acceso un fuoco lento, essa si intorpidirà lentamente, non si renderà conto di quel che succede e farà una brutta fine.

Questa seconda storia assomiglia a quanto è avvenuto all’economia – e di conseguenza alla società – italiana negli ultimi vent’anni, seppure il finale sia ancora da scrivere. Infatti, ciò che spesso sfugge alle analisi sulle crisi, prima finanziaria, poi economica e quindi virata nel cortocircuito tra debiti sovrani e banche, è che l’Italia si trova ad affrontare queste circostanze dopo aver attraversato almeno un quindicennio immersa nell’acqua che andava lentamente scaldandosi.
In altre parole, quando la crisi ha colpito le fondamenta finanziarie delle economie occidentali, estendendosi rapidamente ad altri settori, l’Italia, a differenza degli altri paesi, era da tempo in una condizione di stagnazione che andava peggiorando. Le diverse crisi che si sono succedute dal 2007, per tornare all’allegoria iniziale, hanno avuto dunque l’effetto di fiammate di calore intenso e improvviso in un contesto che tuttavia era già profondamente deteriorato.

Uno dei luoghi comuni ripetuti dal governo di centrodestra fino all’estate del 2011, quando le reazioni dei mercati internazionali l’hanno costretto a una manovra correttiva molto seria in pieno agosto, suggeriva che l’Italia avesse subito gli effetti della crisi economica in misura minore rispetto agli altri paesi. Certamente le banche italiane hanno seguito strategie meno rischiose delle loro cugine d’oltreoceano o d’oltremanica e, di conseguenza, non hanno sofferto in maniera paragonabile della crisi finanziaria. Tuttavia, leggendo i dati, che rivelano l’opposto di quanto sostenuto a lungo, vengono i brividi a pensare cosa sarebbe accaduto se il nostro sistema bancario non fosse stato così solido.
Per i nostri partner europei più importanti, come la Germania, la Francia o il Regno Unito, la crisi è arrivata come uno shock improvviso che li ha visti capaci di avviare una decisa reazione. Per altri paesi, più fragili o con maggiori problemi legati alla finanza privata o pubblica – come l’Irlanda o l’Islanda –, è stato più difficile superare i momenti critici e molte misure emergenziali hanno avuto costi sociali o economici che si sarebbero potuti evitare. La crisi ha reso improvvisamente evidenti tutte le differenze tra le economie europee, non solo in termini di gestione della finanza pubblica tra paesi con i conti in ordine e paesi con un alto debito pubblico, ma anche riguardo alle diverse capacità di reazione dell’economia reale. Queste differenze, le loro conseguenze sui mercati finanziari hanno a loro volta mostrato tutti i limiti insiti nella costruzione della moneta unica in assenza di una forma di unificazione politica equivalente che, distribuendo oneri in maniera ragionevole, sia anche in grado di avere strumenti adatti a fronteggiare le situazioni critiche.
È ormai chiaro che ci vorrà tempo, altri tentativi e presumibilmente altri errori prima che le ferite della crisi si cicatrizzino, un nuovo equilibrio sia individuato e le economie europee possano entrare in un nuovo periodo di crescita stabile e duratura.

In questo quadro è importante essere consapevoli che per l’Italia, al contrario degli altri paesi europei, la crisi è intervenuta dopo che una lunga e lenta stagnazione era già in atto: l’Italia era già dentro una pentola d’acqua sempre più calda, quando la temperatura si è ulteriormente alzata. Di conseguenza, le sue bruciature sono più profonde. Tuttavia, proprio l’assuefazione a un declino avvertito come inesorabile – non solo in campo economico, ma esteso a tanti settori della vita civile, in cui sembra che si possa andare avanti nonostante evidenti problemi e difficoltà (che a loro volta, crescendo impercettibilmente, sembrano sempre di poco superiori a prima) – ha finora impedito uno scatto in avanti. È questo che, in ultima analisi, ha reso credibile e, tutto sommato, poco contestata dai principali media, la versione propagandistica del governo sull’Italia «prima della classe» nel contesto della crisi globale.
Se negli altri paesi la crisi ha fatto paura, l’Italia ha reagito come nella storiella dell’uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani e, a ogni piano che passa, si ripete: Fino a qui tutto bene.

Pochi numeri, ma pessimi
Da un certo punto di vista la tesi di un’Italia monocula in terra caecorum continua a resistere, dato che le motivazioni addotte ai provvedimenti economici recenti puntano tutte il dito sullo stato dell’economia globale e sulle responsabilità della finanza internazionale, evitando sistematicamente uno sguardo critico sulle condizioni nelle quali l’Italia si è trovata ad affrontare la crisi. Da ultimo, le spinte dei mercati finanziari – si noti bene, sempre ragioni contingenti – sono state anche alla base della giustificazione politica che, da parte di tutti gli schieramenti, è stata data al governo di unità nazionale presieduto da Mario Monti. Da parte della classe politica si è sentito molto poco a proposito delle ragioni di lungo periodo che hanno condotto l’Italia alla situazione attuale.

L’assenza di un’analisi del genere è ancora più sorprendente se si dà uno sguardo rapido a poche cifre. Per farsi un’idea delle differenze nella crescita economica delle nazioni, il dato più comodo da usare è il prodotto interno lordo per abitante a prezzi costanti, ossia il reddito pro capite reale: i prezzi cambiano in maniera diversa nei vari paesi, tenendoli costanti è possibile capire se le persone hanno migliorato o peggiorato il proprio livello di reddito e confrontarlo con i cambiamenti negli altri paesi. Nel 2008, quando hanno fatto la loro comparsa gli effetti reali della crisi finanziaria, nella maggior parte dei paesi europei il reddito pro capite è iniziato a diminuire. Due anni dopo, l’economia è tornata lentamente a crescere ed è quindi diventato possibile fare un bilancio di quanto ci si fosse impoveriti.
All’inizio del 2010, se confrontato con i livelli del 2008, il reddito pro capite italiano era diminuito di circa l’8%, quello tedesco e francese di circa il 4% e quello britannico di circa il 7%. Tutti i paesi avevano sofferto una recessione ma, a fronte di banche più robuste, la nostra decrescita era tutto sommato simile a quella degli altri. A ben vedere, però, la differenza fondamentale consisteva nel fatto che gli italiani non erano più poveri solamente rispetto a tre anni prima: gli italiani erano più poveri rispetto al 2000.
Il reddito pro capite in Italia era infatti più elevato nel 2000 di quanto lo fosse nel 2010. Al contrario, rispetto al 2000, inglesi e tedeschi erano del 10% più ricchi e i francesi del 6%, nonostante la crisi del 2008-2009. Lo sviluppo economico italiano dal 2000 a oggi è stato talmente esiguo da essere spazzato via da due anni di crisi. In nessun altro paese europeo è stato lo stesso. Dunque, ultimi quindici anni di declino, su cui la crisi globale ha agito da detonatore, aggravando una situazione già molto seria.

Come ogni media, anche quella del reddito pro capite nasconde importanti differenze, che discuterò più avanti. Tuttavia, le differenze di reddito, ossia le disuguaglianze, cambiano molto lentamente nel tempo (e in Italia, negli scorsi vent’anni sono cambiate, come vedremo, in maniera particolare); pertanto, il reddito medio per abitante rimane una misura molto utile per confrontare i tassi di crescita tra i paesi (qui per mostrare che l’Italia nel primo decennio del 2000 non è cresciuta affatto, a differenza degli altri paesi, anzi, è decresciuta).
Il raffronto con gli altri paesi è uno strumento indispensabile per comprendere le cause della stagnazione italiana e rimarrà una costante delle pagine che seguono.

L’invecchiamento delle prospettive
Prima di intraprendere il percorso comparativo è importante inquadrare le particolari caratteristiche della crisi italiana, portato ultimo, come si è detto, di un ventennio circa di crescente stasi e quindi di declino. L’eredità economica della seconda Repubblica è quella di un’Italia più povera e questa mancata crescita, questa riduzione di risorse a disposizione, si riverbera in tutti i settori.
Meno crescita economica significa meno investimenti e meno posti di lavoro. Crescita zero significa meno risorse per lo stato, che incamera meno tasse e dunque ha meno soldi per le scuole, la ricerca, gli ospedali, ma anche per chiudere le buche nelle strade o costruirne di nuove, o comprare vagoni aggiuntivi per la metropolitana. Inoltre, dato che, nel frattempo, gli altri paesi sono cresciuti – sia pure a velocità diverse: sono cresciuti di più i paesi più poveri, e in maniera più modesta quelli più avanzati – da qualunque prospettiva la si guardi, l’Italia è indietreggiata nelle classifiche internazionali.
Sono diminuite le esportazioni, si è ridotto il numero delle grandi aziende, è aumentata la corruzione e la sua percezione, si è fatto più consistente il flusso di lavoratori qualificati, laureati e ricercatori che lasciano l’Italia per andare all’estero, mentre pochissimi stranieri di comparabile specializzazione decidono di venire in Italia. Quella delle classifiche in cui l’Italia è al fanalino di coda è una lista lunga cui – vedete l’assuefazione? – ormai siamo abituati e che potrebbe continuare. I dati sono facilmente disponibili in altri lavori e non credo serva ripeterli. Qui interessa soprattutto capire quali siano le cause di un periodo così lungo di fallimenti

Vale la pena, tuttavia, soffermarsi sull’ultima delle questioni appena menzionate, che pervade l’aneddotica giornalistica sulla crisi: l’annosa fuga dei cervelli. Si tratta di un tema con due facce: è molto rivelatore, ma nasconde una piccola insidia. Secondo calcoli riportati dal giornalista Sergio Nava, circa sessantamila italiani con meno di quarant’anni ogni anno abbandonano l’Italia per lavorare all’estero. È un fenomeno che è cresciuto sensibilmente nel corso del tempo e che, naturalmente, è sia l’effetto sia la causa di ulteriore stagnazione: i lavoratori giovani e preparati non trovano opportunità per mettere a frutto le loro idee e le loro capacità in Italia, di conseguenza quelle idee e quelle capacità non sfruttate non generano in patria le opportunità che potrebbero e di occasioni se ne creano sempre meno.
Quello della fuga dei cervelli è pertanto un fenomeno rivelatore di come il declino economico si autoalimenti anche attraverso il continuo drenaggio di giovani lavoratori, che andranno a contribuire alla crescita di altri paesi. Come spiegò a uno storico Sir Ian Jacob, segretario militare del gabinetto di Churchill, gli alleati vinsero la seconda guerra mondiale «perché i nostri scienziati tedeschi erano più bravi dei loro scienziati tedeschi».

E qui si svela l’insidia dell’insistere solo sulla «fuga»: il problema chiave dell’Italia è che a fronte dei sessantamila che partono, quasi nessuno arriva. Come spiega Irene Tinagli nel libro in cui riporta la parola «talento» alla sua concretezza laboriosa, gran parte delle persone che partono lo fa per una necessità intellettuale o professionale. Lo scambio di persone e talenti tra le nazioni è un fenomeno del tutto normale e sano; la questione in gioco non è il patriottismo, ma l’attrattiva di chi riceve. Il punto quindi non è lamentarsi di chi parte, ma preoccuparsi del perché nessuno arriva a causa del principale portato del ventennio di stagnazione: l’eclissi delle prospettive.
Questa caratteristica differenzia ulteriormente la crisi che l’Italia sta attraversando da tutte le precedenti. A pagarne il prezzo non è una classe sociale specifica, una porzione di territorio o alcuni settori economici, come si è alternativamente verificato in passato. È questa una delle ragioni, non l’unica, per cui ogni lettura della crisi italiana svolta utilizzando una declinazione della categoria di «lotta di classe» – tra capitalisti e lavoratori, tra speculatori e produttori, tra ricchi e poveri – è non solo infondata, ma infeconda e incapace di generare un pensiero politico in grado di interpretare la realtà per poterla cambiare.
La mancanza di crescita nella forma vissuta dall’Italia non ha comportato per la maggior parte dei cittadini e lavoratori adulti e anziani, entrati nel mercato del lavoro fino alla prima metà degli anni novanta, un peggioramento netto dei loro redditi individuali e, più in generale, delle loro condizioni di vita. Tuttavia, sono peggiorate le prospettive e dunque ridotte le opportunità, le speranze e, più prosaicamente, il reddito a cui hanno avuto accesso le generazioni più giovani.

Per sapere questo non serve essere economisti o citare cifre e dati, anche se questi sono facilmente disponibili. L’esperienza dominante delle persone sotto i quarant’anni in questo paese – in qualsiasi territorio vivano e a qualunque classe sociale d’origine appartengano – è quella di carriere lavorative intermittenti, di una limitata capacità di reddito e di un confronto negativo con l’esperienza dei loro genitori quando avevano la loro età.
Due grafici pubblicati dall’«Economist» il 10 settembre 2011 mostrano che l’Italia ha un’altissima disoccupazione giovanile: circa il 30%, un livello paragonabile solo a quelli di Spagna, Grecia e Irlanda. Soprattutto, l’Italia ha di gran lunga il numero più alto di giovani cosiddetti «scoraggiati» – il 5% –, che si lasciano vivere nel distacco totale da qualsiasi definizione significativa del concetto di cittadinanza. Al secondo posto di questa triste classifica è l’Irlanda con poco più dell’1%, ossia cinque volte di meno.
Questo processo di inaridimento delle prospettive, lento ma costante, porta oggi l’Italia a rendersi conto più chiaramente della sua crisi perché il calo di reddito presente e atteso degli italiani tra i diciotto e i quarant’anni riguarda ormai circa un terzo della popolazione: molto di più se consideriamo anche i loro figli.
Inoltre, la base familiare dello stato sociale italiano e i legami stretti che caratterizzano la struttura sociale del nostro paese, da un lato è a lungo servita da cuscinetto che attutiva le ricadute individuali della stagnazione economica. Questo ha certamente contribuito, ancora una volta, a ridurne la percezione. Tuttavia, questa stessa struttura sociale è ormai anche il principale canale attraverso cui la sofferenza viene avvertita anche dai più anziani, che continuano a contribuire al sostentamento dei figli (e dei nipoti) in età nelle quali loro avevano da tempo raggiunto la piena autonomia economica.

In Italia, nel 2010, circa la metà degli uomini tra i 24 e i 35 anni vive a casa con i genitori. Un dato in linea con i paesi più poveri dell’Unione, Spagna e Portogallo, ma lontanissimo dalla Francia (13%) o dalla Germania (18%). Indubbiamente vi sono fattori culturali determinanti, ma una cifra così imponente non può essere liquidata con la facile retorica degli italiani mammoni. All’origine ci siano soprattutto strutturali ragioni materiali.

Uscire dalla pentola
La crisi che sta soffrendo l’Italia all’inizio del secondo decennio del secolo ha due facce. C’è quella evidente dalle prime pagine dei giornali che riportano le difficoltà economiche globali e le loro conseguenze di larga scala che investono anche l’edificio della moneta unica europea e il nostro paese con la sua principale debolezza finanziaria, l’enorme debito pubblico.
C’è poi l’aspetto più profondo e grave, di una lunga stagnazione che ha colpito selettivamente, non in maniera uniforme, e che ha posto il nostro paese in una condizione di estrema fragilità davanti ai fenomeni di portata più vasta: eravamo già deboli quando è arrivata la tempesta.
Come già accennato, il fatto che la stagnazione sia stata lenta e selettiva ha avuto anche conseguenze positive. Molte imprese sono state in grado di operare con successo, cogliendo appieno le opportunità offerte dai nuovi mercati; la scuola e l’università, anche se oggetto al pari di altri settori nevralgici di un calo di risultati e prestigio, hanno continuato a formare generazioni di italiani. La stessa fuga dei cervelli è la dimostrazione dell’esistenza di una grandissima quantità di persone preparate e di talento. La solidità dimostrata dalle nostre banche è garanzia di opportunità di credito, di accesso a capitale che di certo potrebbe trovare il modo di essere impiegato positivamente.

L’Italia è lentamente affondata, ma non precipitata. Tuttavia, ci troviamo ormai in un momento critico: infatti, anche dopo il 2011 l’Italia resta uno dei paesi europei che cresce meno e non sappiamo se e quando torneremo al livello di reddito che avevamo nel 2000.
Eppure, non è stato sempre così. Anzi, per decenni la rappresentazione delle economie europee era l’opposto di quello cui siamo ormai abituati. Negli anni sessanta, settanta e ottanta, l’Italia è cresciuta sistematicamente sopra la media europea, più della Francia, della Germania, del Regno Unito. Anche dopo gli anni del miracolo economico del dopoguerra, fino a tutti gli anni ottanta l’Italia dava i segni di un’economia dinamica, con esempi di eccellenza anche nei settori più avanzati dell’industria che convivevano con reti di piccole e medie imprese che sostenevano la crescita nei settori di più tipica specializzazione. Evoluzione delle nostre tradizioni artigiane: ceramiche, pellame, tessili erano diventati alta moda e design abitativo. I distretti industriali eccellevano anche nei beni strumentali e nell’elettronica.

Le difficoltà sono cominciate nel decennio degli anni novanta, quando questa immagine e questa reputazione si sono invertite. L’Italia ha cominciato a crescere sotto la media europea; verso la fine del decennio la produttività del lavoro e la dotazione tecnologica del paese sono iniziate a diminuire. Negli anni dieci del Duemila il quadro si è fatto sempre più preoccupante: è stato nel complesso un decennio di arretramento netto. Riprendendo un appellativo che era toccato all’impero ottomano alla fine dell’Ottocento e alla Gran Bretagna negli anni settanta, «The Economist» ci ha dedicato una copertina accompagnata dalla definizione di Sick Man of Europe, il malato d’Europa. Eppure, guardando a chi prima di noi è stato attribuito quel soprannome, non sono pochi i motivi di speranza.
Da un ventennio, infatti, la Gran Bretagna è celebrata come una delle economie più agili, dinamiche e produttive. Sia pure colpita duramente dalla crisi finanziaria ed economica, Londra rimane una delle città più importanti del mondo, con produzioni d’eccellenza nella cultura, nella ricerca, nei settori tecnologicamente più avanzati. La Turchia cresce a ritmi paragonabili a quelli della Cina ed è patria di importanti esperimenti di convivenza tra Islam e democrazia, in cui non mancano passi avanti e preoccupanti tensioni.

In altre parole, il futuro dell’Italia non è segnato dalla definizione di «paese malato» che pochi riescono a contestare con argomenti solidi. Al contrario, riflettere sulle cause che ci hanno portato ad ammalarci rimane fondamentale per immaginare un futuro radicalmente diverso. Capire la traiettoria del paese è necessario per aumentare le possibilità di imboccare la strada giusta, o almeno quella che ci porti fuori dall’acqua, ché la temperatura continua a salire.

Senza alibi (perché il capitalismo italiano non cresce più) è il nuovo libro di Marco Simoni, economista e politologo, collaboratore del Sole 24 Ore e blogger del Post, che vive a Londra e insegna alla London School of Economics. È pubblicato da Marsilio.