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  • Venerdì 23 marzo 2012

Maddalena Rostagno e il libro su suo padre

La morte di Mauro Rostagno, il giornalista ucciso nel 1988, e i giorni che seguirono, nel racconto di sua figlia

di Maddalena Rostagno, Andrea Gentile

Maddalena Rostagno ha scritto Il suono di una sola mano, da cui sono tratte queste pagine: è la storia di suo padre, il giornalista Mauro Rostagno ucciso a Trapani nel 1988, raccontata con la collaborazione di Andrea Gentile. Il libro è uscito per il Saggiatore.

Ero in camera di Chicca, sdraiata sul letto. La stavo aspettando per farmi aiutare in matematica. Ho sentito degli spari in due scariche, ma non ci ho fatto caso. Ci ho pensato dopo. In campagna ogni rumore, anche quello degli spari, sembra naturale. Poteva essere un cacciatore che voleva allontanare i cani, a volte succede. All’improvviso il portone del Gabbiano, la parte più antica del baglio, si è spalancato. Ho sentito qualcuno che gridava «Chicca, Chicca». Non ricordo chi fosse. Mi sono affacciata per dire che mia madre era in ufficio. Poi sono uscita, qualcuno è venuto a prendermi e mi ha presa per mano. «Mauro ha avuto un incidente» mi hanno detto. «Portatemi da loro, da Mauro e Chicca» ho detto. Andrea, un ragazzo della comunità, ha detto «Non ti muovere» e mi ha tirato una sberla. Poi ho sentito l’ambulanza, vicino, molto vicino, e poi anche le urla di Chicca.

Vi ho raggiunti in strada, nel buio. Chicca è venuta verso di me, dietro di lei alcuni carabinieri. Ci siamo abbracciate. Mi ha accarezzato e mi sono accorta che aveva le mani sporche di sangue. Né io né lei ricordiamo bene cosa ci siamo dette, come me l’ha detto. Di sicuro mi ha chiesto se volevo vederti, io le ho risposto di no. Poi i carabinieri l’hanno portata subito in caserma, a Napola. Mi sono seduta a terra sul vigneto davanti all’ufficio e dopo poco ho deciso che volevo raggiungerla a piedi. Mi hanno accompagnato due ragazzi della comunità, fuori c’era un po’ di gente, alcuni in divisa e altri no, mi sembra che qualcuno tenesse un faretto in mano per fare luce. Non mi sono girata verso la macchina, ho continuato a guardare dritto, nel buio. Per strada abbiamo incontrato Paolo, un muratore che era spesso in comunità per fare lavori. Ci ha dato un passaggio.

Arrivata in caserma, mi hanno indicato una stanza in fondo al corridoio. C’erano Chicca e Monica, sedute su una panchina, guardavano la televisione e mi davano le spalle. È solo in quel momento che ho realizzato. Il conduttore del tg parlava e sullo schermo andavano in onda le tue foto. Solo in quel momento ho realizzato. Ti avevano sparato. La mattina dopo, appena ho aperto la porta della mia stanza, ho visto da lontano una persona seduta sui gradini dell’ufficio con un enorme cappello viola. Ho capito subito che era lei, Nartano. La prima ad arrivare. Una delle più grandi amiche di mia madre, quella con cui era tornata in India una volta. Nartano l’avevamo conosciuta ai tempi di Macondo, a Milano.

Eri venuto a prendermi all’asilo, a Lampugnano, con mantello nero e kajal. Lei era lì fuori ad aspettare sua figlia Viola, ti ha notato e siete diventati subito amici. In quegli anni gestiva il Rebelot, una stravagante boutique, poi lei e Viola si erano trasferite con noi a Saman per qualche anno, dove Nartano teneva i suoi laboratori di cucito. Ma non era cucito il suo; era creatività allo stato puro. In quei giorni Nartano non mi ha lasciata per un secondo. Mi abbracciava, mi regalava sorrisi, chiacchierava, e una di quelle sere guardammo insieme Il petomane, con Tognazzi che faceva il «Paganini del peto».

Ho consegnato a lei la mia colonna sonora per il funerale, per il tragitto in auto dalla chiesa al cimitero; dentro c’era The sound of silence di Simon & Garfunkel, ripetuta venti volte, in loop. Ed è lei che ha fatto il cuore sul cemento del loculo dove ti hanno messo prima che avessi un pezzo di terra al cimitero. Nei giorni della camera ardente a Saman, sono venuti in centinaia per salutarti. Io ero lì fuori, seduta a terra, a guardare tutti, senza entrare. Con alcuni ero accogliente, con altri meno. Il tuo amico Checco – che avevo conosciuto a febbraio a Trento, dove mi avevi portato per il ventennale del ’68 – ha capito di cosa avevo bisogno: si nascondeva e mi lanciava sassolini. Mercoledì sera Chicca ha bussato alla porta e mi ha chiesto se ero davvero sicura di non volerti vedere. Era l’ultima possibilità.

Poi avrebbero chiuso la bara. Ho detto: «Voglio vederlo, ma da sola». Sono entrata nella stanza più grande del Gabbiano. Lì dentro il 25 settembre io e Saverio, un ragazzo della comunità, avevamo fatto una cosa insolita: avevamo preparato una cena romantica per te e Chicca, cucina cinese. Chicca conserva ancora il bigliettino che vi feci trovare: «Onolevoli signoli, la cena è selvita». Lì abbiamo guardato i Mondiali del 1982, Blade Runner e Il padrino; lì ho pianto con te, quando hanno ammazzato Sonny Corleone; lì ti ho detto che per la prima volta mi erano venute le mestruazioni e tu ti sei messo a ridere; lì abbiamo passato pomeriggi interi ad ascoltare musica; lì dove lavoravi con la tua macchina da scrivere; lì dove mi leggevi le lettere del nonno. Lì, ora, c’eri tu, vestito di bianco, disteso in una bara. Non eri bello come mi avevano detto. Ti ho guardato immobile. A un metro di distanza, tremando. Ho pensato che volevo farti una carezza, ma non ci sono riuscita. Poi mi sono accorta che avevo lasciato aperto il portone e che dietro di me, a guardare il nostro incontro, c’erano Chicca, Nartano e Francesco, e me ne sono andata.

In India, quando una persona muore, stendono il suo corpo accanto al fiume Gange, lo ricoprono di fiori e lo bruciano, per poi gettare le ceneri nell’acqua. Intorno al corpo di un nostro amico, quando eravamo in India – io avevo 7 anni –, avevamo ballato fino al tramonto. Avrei voluto salutarti così, con odore di gelsomino e danza, ma Chicca mi ha fatto capire che a te il funerale in chiesa sarebbe piaciuto. Io non sono venuta, c’era troppa gente. Ma quando se ne sono andati tutti, ho scavalcato il muretto del cimitero e sono venuta a salutarti portandoti tre margherite. Che ancora oggi, quando io e Chicca ce le regaliamo o disegniamo, rappresentano noi tre. Il 29 settembre, alle 3 del pomeriggio, si tengono i funerali, nella cattedrale barocca di San Lorenzo, a Trapani. La Crocifissione di Van Dyck, il San Giorgio di Andrea Carreca e il Cristo morto di Giacomo Tartaglia a fare da sfondo al saluto di Mauro Rostagno.

Fino alla sera prima si è parlato di un rito civile a Saman, ma Chicca Roveri ha deciso per un rito cattolico, perché tutti i cittadini di Trapani potessero essere presenti. Alle 22 è arrivato il sì dal vescovo di Trapani Emanuele Romano; a chiederlo monsignor Antonino Adragna, che conosceva Rostagno da tempo, da quando entrambi, insieme ai ragazzi della parrocchia, avevano festeggiato il decennale dell’occupazione della cattedrale, a opera dei senzatetto. Accorrono in tantissimi, circa trecento solo i compagni di Lotta Continua. Alcuni di loro piantano nella curva fatale un hibiscus rosso mandato da Renato Curcio. Dovrebbe arrivare Adriano Sofri, che è agli arresti domiciliari per il caso Calabresi, ma gli si impone un viaggio in furgone cellulare blindato con scorta militare e partenza trentaquattro ore prima. In più deve presenziare in manette. Sofri dice no e invia a Chicca Roveri un biglietto; non vuole essere presente in catene, non vuole disturbare.

Tra la folla ci sono volti amici e volti sconosciuti. Tre donne vestite di nero si avvicinano piano piano, dubbiose, a Chicca Roveri; poi prendono coraggio e le prendono la mano: «Siamo telespettatrici».
La cattedrale è stracolma, le tre navate sono piene di persone che assistono in piedi. Ci sono rappresentanti delle istituzioni locali; il sindaco Vincenzo Augugliaro, il presidente della provincia e qualche assessore.
Nessun rappresentante dello Stato. Claudio Martelli, vicesegretario del Psi, partecipa «come amico personale». Affianco a lui, Francesco Cardella. Al centro c’è la bara, coperta da un drappo bianco e azzurro. Sopra ci sono tre piccoli hibiscus, uno bianco, uno rosa, uno rosso. In prima fila Monica Rostagno, la prima figlia di Mauro, Carla, la sorella di Mauro, i compagni di Trento e di Lotta Continua, i ragazzi di Saman, e Chicca Roveri. Affianco a Chicca c’è una sedia. Su quella sedia c’è una vecchietta, vestita di nero. Nessuno sa chi sia. Osserva la cerimonia con il silenzio di una madre.

Prende il microfono monsignor Antonino Adragna e si scaglia contro la mafia:

La mafia siciliana, protagonista invisibile, è tornata a colpire con malvagità. […] Un fucile semiautomatico ha ucciso Mauro Rostagno. 46 anni, una voce scomoda, una valida intelligenza stimata da tutti che voleva recuperare una nuova qualità di vita alle nuove generazioni. Della denuncia ne aveva fatto una missione. […] Per Rostagno la lotta alla droga, alla mafia, alle disfunzioni degli enti locali erano diventati aspetti di una stessa battaglia, che ha combattuto fino alla morte. Infatti Rostagno collaborava da circa due anni con l’emittente televisiva locale Rtc e continuamente si scagliava contro la mafia e il traffico di stupefacenti. Le sue battaglie erano anche quelle dei senzatetto, di quel proletariato costretto a vivere di mille espedienti ed emarginato dalla società. La lotta per l’acqua, per difendere la natura, per rendere pulita la città. Proprio in queste lotte è nata la nostra amicizia e la nostra vicendevole stima.

La gente che a Trapani ancora crede in qualche cosa incominciava a poco a poco a identificarsi con lui. Osava ripetere: faccio le stesse battaglie di una volta contro l’emarginazione, contro la mafia, niente potrà farmi tornare all’attività politica di un tempo. Ed è stato questo impegno apparentemente più lontano dalla politica a costargli questa volta la vita. Dopo la morte di Ciaccio Montalto, la strage di Pizzolungo, l’uccisione di Giacomelli e di Rostagno non possiamo chiudere gli occhi. La provincia di Trapani rispecchia in tutti i sensi la nuova criminalità della mafia e sette morti, da gennaio a oggi in provincia. A chi tocca adesso? […] Noi vogliamo credere che Mauro Rostagno, così violentemente strappato all’affetto dei familiari, della comunità di Saman, dal nostro fianco, vittima di odio e sopraffazione, che sono sempre ingiusti e ingiustificati, noi vogliamo sperare che Mauro sia accolto nella grazia della divina misericordia.

Anche perché in se stesso, anche senza pensarlo, ha riprodotto l’immagine di Cristo che il vangelo oggi ci ha posto dinnanzi. Cristo fu vittima dell’ingiustizia, dell’odio, della violenza spietata. Gesù è la vittima innocente e santa che con una morte ingiusta espia tutte le colpe degli uomini. E in questa morte c’è dunque qualcosa della morte di Cristo. […] A questo punto il pensiero corre con prepotenza a coloro che sono causa di questo nostro dolore. Agli assassini. Che cosa dire? Che cosa chiedere? […] Mafia. Tu non sei società, ma sei contro la società. Un pensiero ora alla situazione che fa da sfondo all’evento che qui dolorosamente ci raduna. Che dire? Siamo tutti stanchi di odio e di violenza. Vogliamo vivere in pace. Vogliamo dire allo Stato e ai partiti maggiori responsabili di queste cose, svegliatevi! Siamo stanchi di chiacchiere. Non basta nominare un alto commissario. Occorre fare presto e dare i mezzi e i poteri.

Lo Stato può vincere la mafia, ma occorre la risposta forte e immediata di tutti, nessuno può stare in panchina a guardare. […] Giornalisti, politici, uomini di cultura, giovani di buona volontà non abbiate paura. Torniamo ognuno al nostro posto con coraggio e onestà. La paura genera disgregazione sociale, non abbiamo bisogno di mafia ma di comuni testimoni nella vita.

Poi il corteo, dalla chiesa, passando per le vecchie vie del porto, arriva nella piazza del municipio. La bara è sorretta dagli amici di gioventù, tra cui Marco Boato, Enrico Deaglio, Mimmo Pinto, Checco Zotti, Toni Capuozzo, Carlo Panella e Randi Krokaa, la compagna di Adriano Sofri. In piazza si tengono i discorsi. Parla Cardella, poi Martelli. Per lui è «un delitto mafioso». L’intervento di Marco Boato è il più lungo. Cita Leonardo Sciascia, che sulla sua lapide vorrebbe la scritta «Contraddisse e si contraddisse», poi cita un vecchio proverbio cinese che Mauro Rostagno amava: «Senza contraddizione non c’è vita». E paragona la morte di Mauro Rostagno a quella di Ernesto Che Guevara, ucciso ventun anni prima. Quando la bara attraversa le strade, alle finestre e ai balconi ci sono tutti i trapanesi, e dall’alto molti gettano petali di rosa.

Poi dritti verso il cimitero di Ragosia di Valderice. È il più grande funerale che Trapani abbia mai avuto. A novembre, sul mensile King, Chicca Roveri racconta a Claudio Fava: «Desideravo tornare a casa, dopo quei discorsi in cattedrale, che bello, pensavo, adesso racconto tutto a Mauro. […] Lui sarebbe stato felice per quel prete così incazzato».