Com’è fatto un carcere

Le immagini girate da Antonio Crispino del Corriere della Sera negli istituti penitenziari di Roma e Messina

Antonio Crispino del Corriere della Sera è entrato nel carcere di Rebibbia, a Roma, e in quello Gazzi di Messina. E nonostante abbia fatto, lo dice all’inizio del video, “il giro dei giornalisti”, e nonostante non gli sia stato fatto vedere tutto quello che voleva vedere, il video della sua inchiesta mostra comunque lo spettacolo disumano e scandaloso dello stato delle carceri italiane e delle persone che ci vivono, a volte anche in condizioni di salute più che precarie. Oggi in Italia ci sono circa 67.000 detenuti, “ospitati” in strutture che potrebbero ospitarne al massimo 45.681. Non che gli abusi sui colpevoli siano meno gravi, ma parlando delle ragioni del sovraffollamento vale la pena notare anche che più della metà dei detenuti italiani sono in carcere in attesa di giudizio, non sono stati condannati in via definitiva: sono, quindi, tecnicamente innocenti. Molti di questi, dicono le statistiche, saranno riconosciuti tali alla fine dei procedimenti che li riguardano.

I dati della detenzione in Italia spaventano. Nel 2010 l’Italia ha raggiunto il record europeo di 68.258 detenuti. In poco più di un anno il numero si è mantenuto costante (oggi sono circa 67 mila detenuti). Sono compressi in spazi previsti per 45.681 persone. Più della metà sono in carcere in attesa di un giudizio. Sul totale dei detenuti solo il 56,2% ha una condanna definitiva. In Francia i detenuti che aspettano una sentenza sono il 23,5 %, in Germania il 16,2%, in Spagna il 20,8%, in Inghilterra 16,7%. Il sovraffollamento è al 148%, il peggiore in Europa dopo la Serbia.
I dati sono quelli del progetto Space (Statistiques Penales Annuelles) creato dal Consiglio d’Europa. Nemmeno 28 provvedimenti di amnistia/indulto (fonte: www.ristretti.it) approvati dalla nascita della Repubblica hanno cambiato granché il quadro generale.

IL DRAMMA – Ma le statistiche non raccontano bene il dramma delle carceri e al di là dei numeri spesso si trova solo omertà, disinteresse o luoghi comuni. Entriamo da giornalisti nei vari istituti detentivi italiani ma la realtà che possiamo riprendere è solo quella che ci indicano i dirigenti. C’è addirittura chi raccomanda «il solito giro per i giornalisti» o comunica alle direzioni di «verificare i contenuti del materiale prodotto… prima dell’autorizzazione alla pubblicazione del servizio». Anche i detenuti con cui parlare non li scegliamo noi ma ce li indicano dalle direzioni. Sarà un caso, ma sono tutte persone che lavorano e non hanno problemi. Ma di detenuti come quelli che ci propongono (definiti “articolo 21”), nel carcere “Gazzi” di Messina, da dove parte il nostro viaggio, ne sono tre su circa quattrocento.

Basta voltarsi dall’altra parte per scoprire una realtà tutta diversa. In una cella originariamente adibita al transito, ci sono otto detenuti. Scendono dai letti solo in quattro perché tutti in piedi non ci starebbero, fanno a turno. Hanno la tazza del water accanto al tavolino dove mangiano. Non c’è un muro divisorio o un paravento. I bisogni si fanno “a vista”, davanti a tutti. Ci sono quattro livelli di brande, l’ultima arriva proprio fin sotto il soffitto. Non c’è una scala per salire (in carcere è vietata). Chi capita ai piani alti deve arrampicarsi sugli altri. Ci dicono di andare avanti. Intravediamo una persona che trema su una carrozzina, a stento riesce a parlare. Siamo in quello che dovrebbe essere il centro clinico. Riesce a malapena a dire che soffre di «atassia cerebellare». E’ una degenerazione del sistema nervoso che fa perdere la coordinazione dei movimenti. Se non curata bene porta progressivamente alla paralisi. Appena voltiamo l’angolo una guardia ci suggerisce di lasciar perdere. «Ha sulle spalle due o tre omicidi» sghignazza.

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Sono seduto, di Luca Sofri