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  • Mercoledì 30 marzo 2011

Il grande libro del rock (e non solo) – 30 marzo

Le storie del rock di oggi raccontate da Massimo Cotto

di Massimo Cotto

Il cuore rallenta, la testa cammina / in quel pozzo di piscio e cemento

Khorakhanè, Fabrizio De André

1946 – nasce a Lentate sul Seveso Dori Ghezzi, compagna di vita di Fabrizio De André. Sul bellissimo sito Via del campo, che dovete visitare almeno una volta se amate Faber, è ricostruita la loro storia. 1974, cena a casa di amici. Ci sono Mina, Vanoni, Gino Bramieri, Fabrizio e Dori. Mina dice: «Perché per una volta non scrivi una canzone per noi?». Fabrizio risponde: «Se dovessi scrivere una canzone per una donna, la scriverei per Dori». Avrei voluto vedere l’espressione di Mina ma soprattutto della Vanoni. Tempo dopo, al termine di un concerto di Capodanno di Dori a Genova, le indicano una casa illuminata. «È la casa di De André». Dori guarda, poi abbassa gli occhi e trova una moneta da cinquanta lire. E pensa: «Questo è un segno, trovare dei soldi in una città dove la gente è così attenta al denaro». Incontra nuovamente Fabrizio a Milano, in uno studio di registrazione. Si scambiano i numeri. Iniziano a vedersi. Lui non si dichiara mai, non le dice mai una sola parola d’amore. Ma l’amore nasce. Nel 1977 nasce Luvi; nel 1979 arriva il sequestro di centodiciassette giorni; il 7 dicembre del 1989 Dori e Fabrizio si sposano a Tempio Pausania; l’anno seguente Dori si ritira dalle scene. Tornerà a cantare pochissime volte e sempre in famiglia: per la figlia Luvi o nella strepitosa parte finale in lingua rom di Khorakhanè.
Dori, ai suoi tempi, era molto più famosa di Fabrizio. Con Casatchock aveva venduto un milione di copie – era anche andata a Mosca, dove passeggiando con una palandrana da cui spuntava una minigonna, aveva fatto impazzire i russi provocando scene di isteria quasi beatlesiane, salvo poi scoprire che pensavano fosse Brigitte Bardot.

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La gente dice che non esiste / perché nessuno vuole ammettere / che c’è una città sottoterra

Subcity, Tracy Chapman

1960 – nasce Tracy Chapman, ragazza nera del ghetto di Cleveland cresciuta in una delle città più bigotte e conservatrici della costa Est, Boston. Primo disco fantastico, poi, a parte la delizia isolata di Subcity, il nulla. Caso emblematico di quella generazione di cantautrici che hanno saputo sfornare cose di pura eccellenza nei primi anni di carriera, ma che poi si sono squagliate come neve al sole. Come Tracy, anche Suzanne Vega, dolce cantautrice newyorkese, e Toni Childs, forse la più talentuosa di tutte, ma presto strapazzata dai soliti demoni e dalle solite sostanze. Al di là delle davvero notevoli canzoni contenute nel suo primo album omonimo – Fast Car, Talkin’ About A Revolution, Baby Can I Hold You, Across The Lines, Behind The Walls – credo che la ragione del successo di Tracy Chapman sia nella sua voce. Non tanto nella pur innegabile bellezza, quanto nel dolore che vi si respira. Il suo timbro è solenne, addolorato, come se si trascinasse dietro chilometri di solitudine e di sogni sempre svaniti prima dell’alba. Tracy Chapman ha dentro di sé, dentro quella voce che la natura le ha dato, il riassunto della sua gente. Ha la disillusione di un colore – il nero – che ha sempre cercato l’iride ma è sempre stato respinto e nonostante questo non rinuncia a sperare in un nuovo arcobaleno. Quando senti cantare Tracy Chapman, non senti solo un’artista singola, ma la portavoce involontaria della sua gente e di tutti quelli che hanno un blues da piangere.

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Cosa farai quando sarai rimasta sola / e non avrai nessuno ad attendere al tuo fianco?

Layla, Derek & the Dominos

1945 – nasce Eric Clapton, Slowhand, Manolenta. Innovatore, sempre e comunque, nel blues, nel rock, nel pop. Con i Cream ha per primo alterato in modo sistematico le pareti della canzone rock: non più tre-minuti-tre per entrare nel formato radiofonico degli anni Sessanta, ma divagazioni e improvvisazioni; si inserivano nel filone del blues revival, ma finirono per anticipare i fermenti dell’hard rock, deformando il blues fino a distorcerlo non solo in senso letterale. Con Blind Faith, Derek and the Dominos e Yardbirds ha rimodellato la materia nera con mani bianche, senza stravolgerne l’essenza ma aggiungendo qualcosa di nuovo. Poi, in una carriera solista sempre tra alti e bassi e mai perfettamente a fuoco, ha un po’ tradito la grandezza del blues per la piccolezza del pop, ma nonostante questo, con il suo stile laid-back mutuato da J.J. Cale, ha cambiato faccia alle classifiche, inserendo grandi ballate come Wonderful Tonight, canti dolenti come Tears In Heaven, riletture della marleyana I Shot The Sheriff. A proposito di sceriffi, una curiosità: Clapton è grande appassionato di fucili, vero e proprio collezionista. Ha investito in armi oltre un milione di dollari e ha suonato contro il divieto di uccidere le volpi e a favore della caccia in genere. «Sono un cacciatore», si è giustificato. «La maggior parte della gente che conosco va dal macellaio a comprare la carne. Io me la procuro da solo. E allora? Dov’è la differenza?»


Vicino, lontano, ovunque tu sia / credo che il cuore andrà avanti comunque

My Heart Will Go On, Céline Dion

1968 – nasce nel Québec, in Canada, in un luogo chiamato Charlemagne, Céline Dion, che del pop è stato davvero il Carlo Magno, regina dei franchi tiratori delle classifiche, conquistatrice di un vasto impero nonché recente imperatrice di Las Vegas. Ha venduto duecentocinquanta milioni di dischi nel mondo, è l’unica artista nella storia ad avere due album che possono vantare di aver sfondato entrambi il tetto dei trenta milioni di copie vendute, è stata la protagonista dello show più costoso della storia, A New Day…, in scena per quattro anni e nove mesi al Caesar’s Palace, oltre settecento repliche, tre milioni di spettatori e un incasso di quattromila milioni di dollari. Una macchina da guerra, insomma, per tener fede al nome del suo paese natale. Perfetta, forse troppo. Poco passionale, poco emozionale, queste le critiche che la accompagnano da vent’anni. Per alcuni, Céline Dion è un’occasione sprecata, considerato il talento, le premesse e promesse iniziali. Il senso del tradimento è proprio nell’effetto domino, nel passaggio da un mondo all’altro. Ha iniziato come un’Aretha Franklin bianca, poi è diventata un alter ego di Whitney Houston e ora naviga nelle acque di Mariah Carey. Di tutto un pop, con produzioni a volte ridondanti e canzoni non sempre immortali. Ma ditemi voi cosa fareste, se aveste venduto quanto ha venduto lei? Vi preoccupereste dei critici?

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Ho aspettato finché non ho visto il sole / non so perché non sono tornata

Don’t Know Why, Norah Jones

1979 – nasce a New York, nel quartiere di Brooklyn, Norah Jones, figlia di Ravi Shankar (anche se è stata cresciuta dalla madre) e sacerdotessa del modern jazz, se così vogliamo definire quella nuova categoria che unisce gli stilemi del jazz con le esigenze del pop. Norah Jones è un piccolo fenomeno e anche una rarità nei modi in cui ha avuto successo. Senza nulla togliere al suo indiscutibile talento, ha attraversato come un lampo la prateria nel momento giusto. Con l’opera prima, Come Away With Me, ha venduto la strabiliante cifra di cinque milioni di copie, oltre a conquistare cinque Grammy, evento che si è verificato solo altre quattro volte per una figura femminile: Alicia Keys, Lauryn Hill, Beyoncé e Amy Winehouse. E pensare che tutto era nato per caso. Nel febbraio 2000, Norah aveva appena vent’anni, viveva di Billie Holiday (aveva praticamente consumato il cofanetto di otto cd con molte delle canzoni di Lady Day), di sogni e di serate in un locale della Grande Mela, The Living Room. Una sera, tra il pubblico capitò Shell White, noto discografico della Emi (perché in America i discografici vanno a sentire i concerti degli sconosciuti e frequentano i locali giusti, non come da noi che al massimo vanno su YouTube o su MySpace); Shell rimase colpito dalla voce di Norah e le chiese un demo che fece girare tra le persone giuste. Il più colpito fu Bruce Lundvall, presidente dell’etichetta Blue Note, che, dopo la terza canzone, uscì dalla stanza e chiamò a raccolta i migliori strumentisti della zona. Il risultato accontentò poco o nulla Lundvall. Troppo pop, dice. Ha ragione lui. Arrangiata come vogliono le classifiche Norah Jones diventa una come tante. Lundvall rimanda tutti in studio e ordina: «Fate come vuole lei». Quando esce il disco, vende venti milioni di copie in un amen. E così sia.

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Guardavo il mondo che / girava intorno a me

29 settembre, Equipe 84

1945 – nasce a Modena Maurizio Vandelli, uno dei due principi della nostra canzone, insieme a Francesco De Gregori. Nel 1962 fonda l’Equipe 84, che nasce da un piccolo zoo, ovvero dall’unione di due complessi modenesi: i Giovani Leoni e Paolo e i Gatti. Non bastasse, segnalo che Vandelli aveva suonato nelle Tigri, a riprova del fatto che in quegli anni Sessanta i nomi degli animali andavano per la maggiore, tra corvi, bisonti e camaleonti. Il nome definitivo nasce per tre ragioni: Equipe per dare un tocco di esotismo e internazionalità al tutto; 84 perché era la somma dell’età dei componenti del gruppo e poi perché speravano di essere chiamati a pubblicizzare lo Stock 84, cosa che non avvenne mai. Il primo 45 giri aveva per titolo Canarino va, ed era l’inno del Modena, non proprio un esordio memorabile. Il successo vero arriva quando abbandonano la Vedette e firmano per Ricordi. Il primo singolo fa il botto: Io ho in mente te, cover di You Were On My Mind portata al successo da Barry McGuire, vince il Cantagiro e lancia una nuova realtà. Il lato B (ma le prime copie avevano l’ordine invertito) era Resta, altra cover, di Stay di Maurice Williams, che anni dopo sarà riportata al successo da Jackson Browne. Vandelli e soci diventano il gruppo beat di riferimento. Persino i Beatles definiscono l’Equipe 84, in una famosa intervista radiofonica ad Adriano Mazzoletti, il gruppo italiano più in linea con i tempi. Per alcuni anni, l’Equipe detta legge: Bang Bang, 29 settembre, Tutta mia la città, Nel cuore nell’anima, Pomeriggio ore 6. Poi, nel 1970, viene arrestato Alfio Cantarella, per possesso di sei etti di hashish. È il lento inizio della parabola discendente.

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