Che cosa vuole la tecnologia?

Uscirà a fine febbraio per Codice Edizioni «Quello che vuole la tecnologia», il nuovo libro di Kevin Kelly, fondatore di Wired; ve ne proponiamo cinque pagine in anteprima

di Kevin Kelly

La mia domanda

Per gran parte della mia vita ho posseduto molto poco. Dopo aver lasciato il college, per quasi dieci anni ho vagato per località sperdute dell’Asia in scarpe da ginnastica e jeans sdruciti, con tantissimo tempo a disposizione e niente denaro. Le città che frequentavo erano ricolme di ricchezze medievali, le terre che attraversavo erano governate da antiche tradizioni agricole. Quando mi capitava di toccare un oggetto, questo era quasi sempre fatto di legno, fibre naturali o pietra. Mangiavo con le mani, percorrevo a piedi valli di montagna, dormivo ovunque. Portavo con me pochissime cose: un sacco a pelo, un cambio d’abiti, un coltellino tascabile e alcune macchine fotografiche. Vivendo a  contatto con la terra sperimentavo quell’immediatezza che si rivela quando viene rimossa la barriera della tecnologia. Pativo il freddo, più sovente il caldo, mi ritrovavo bagnato fradicio, ero mangiato vivo dagli insetti, e mi sintonizzavo con il ritmo dei giorni e delle stagioni. Il tempo non mi mancava.

Dopo otto anni trascorsi in Asia, tornai negli Stati Uniti. Vendetti quel poco che avevo e comprai una bicicletta, con cui percorsi per ottomila chilometri il continente americano, da costa a costa. Il momento topico fu essere ammesso nell’ordinata comunità agricola degli amish, nella Pennsylvania orientale. Le comunità amish erano quanto di più vicino potessi trovare, in questo continente, alla condizione di “minimi termini tecnologici” che avevo sperimentato in Asia. Ammiravo gli amish per le loro scelte rigorose in fatto di beni materiali posseduti. Le loro case disadorne erano nuclei squadrati di appagamento. Sentivo la mia vita, libera da ogni tecnologia superflua, correre in sintonia con la loro, ed ero intenzionato a mantenere al minimo il mio livello tecnologico. Giunsi alla costa est senza possedere nient’altro all’infuori della mia bicicletta. Essendo cresciuto nelle periferie del New Jersey negli anni Cinquanta e Sessanta, ero stato sempre circondato dalla tecnologia. Fino ai miei dieci anni, però, la mia famiglia non possedeva un televisore, e quando arrivò in casa nostra non provai alcuna particolare attrazione. Vedevo cosa stava facendo ai miei amici. La tecnologia televisiva ha la notevole capacità di chiamare a raduno le persone in determinati momenti, e poi incantarle per ore. Le sue pubblicità dicono loro di acquistare sempre più prodotti tecnologici; e loro ubbidiscono. Notavo che anche altre tecnologie impositive, come l’automobile, sembravano essere in grado di indurre la gente all’asservimento, spingendo all’acquisto di ulteriori tecnologie (autostrade, cinema drive in, fast food). Volevo che la tecnologia non entrasse a far parte della mia vita, se non il minimo indispensabile.

Da ragazzino facevo fatica a sentire la mia stessa voce, e mi pareva che le voci autentiche dei miei amici fossero soffocate dal frastuono prodotto dalla tecnologia che comunicava con se stessa. Meno avessi preso parte alla logica circolare della tecnologia, più lineare sarebbe potuta essere la mia traiettoria. Quando il mio viaggio in bicicletta terminò avevo ventisette anni. Mi fermai in un appezzamento di terra, economico e fuori mano, nell’interno dello stato di New York, pieno di boschi e senza alcun piano regolatore. Con un amico tagliai degli alberi di quercia, e con le travi lavorate a mano costruimmo una casa. Inchiodammo una a una le assi di cedro sul tetto. Ricordo perfettamente come trascinammo centinaia di pietre pesantissime per erigere un muro di sostegno, che il torrente in piena butto giù più di una volta. Spostai quelle maledette pietre con le mie mani a più riprese, e con altre pietre ancora costruimmo un gigantesco focolare. Malgrado il duro lavoro, le pietre e le travi di quercia mi riempivano dello stesso senso di appagamento provato dagli amish.



Ma non ero un amish. Se devi abbattere un grosso albero – questa la mia conclusione – è una buona idea usare una motosega. Qualunque nativo della foresta che ne avesse avuta una a disposizione sarebbe stato d’accordo con me. Una volta che imponi la tua voce sulla tecnologia e diventi più sicuro in merito a ciò che vuoi, è evidente che alcune tecnologie sono semplicemente superiori ad altre. Se i miei viaggi nel vecchio mondo mi avevano insegnato qualcosa, era che l’aspirina, gli abiti in cotone, le pentole di metallo e i telefoni sono invenzioni fantastiche. Sono buone. La gente di tutto il mondo, tranne pochissime eccezioni, se ne serve appena può. Chiunque abbia mai provato un attrezzo manuale perfettamente progettato sa che può elevarti lo spirito. Gli aeroplani hanno ampliato i miei orizzonti; i libri mi hanno aperto la mente; gli antibiotici mi hanno salvato la vita; la fotografia ha acceso la mia creatività. Persino la motosega, che può tagliare di netto dei nodi troppo duri per un’accetta, ha instillato in me un senso di riverenza per la bellezza e la forza del legno come nient’altro al mondo avrebbe potuto fare. Iniziai a sentire il fascino della sfida rappresentata dal saper scegliere quei pochi strumenti che avrebbero elevato il mio spirito.

Nel 1980 collaboravo come freelance al Whole Earth Catalog di Stewart Brand, la pubblicazione che usava i propri lettori per selezione e raccomandare attrezzi appropriati scelti fra un sacco di roba inutile. Negli anni Settanta e Ottanta il Whole Earth Catalog era di fatto una versione decisamente ante litteram di un sito web basato sulla filosofia dello user generated content, che sfruttava solo carta da giornale a poco prezzo. Il suo pubblico erano i suoi autori. Ero eccitato all’idea dei cambiamenti che alcuni attrezzi semplici e scelti con cura avrebbero potuto apportare nella vita delle persone. A ventotto anni iniziai a vendere per corrispondenza delle guide di viaggio che offrivano informazioni su come accedere, spendendo poco, a quei mondi tecnologicamente semplici in cui gran parte del pianeta viveva. All’epoca gli unici due beni che possedevo erano una bicicletta e un sacco a pelo; per questo avevo chiesto in prestito a un amico un computer (un vecchio Apple ii) per automatizzare il mio neonato business notturno, e usavo un modem telefonico per trasmettere i miei testi allo stampatore. Un collega del Whole Earth Catalog appassionato di informatica mi fornì di straforo un codice come utente esterno che mi consentiva di collegarmi da remoto a un sistema sperimentale di teleconferenze ideato e realizzato da un professore del New Jersey Institute of Technology. Nel giro di poco mi ritrovai immerso in qualcosa di grande e a suo modo selvaggio: la frontiera di una comunità online. Era un continente nuovo, più misterioso addirittura dell’Asia, e iniziai a parlarne come se fosse una destinazione esotica. Con mia immensa sorpresa mi resi conto che queste reti informatiche ad alta tecnologia non soffocavano la mente di quei primi utilizzatori (che eravamo noi); al contrario, la colmavano.

C’era qualcosa di inaspettatamente biologico in quegli ecosistemi fatti di persone e di cavi. Dal nulla più totale stavamo facendo crescere una comunità virtuale. Quando poi arrivò internet, alcuni anni dopo, mi sembrò quasi una cosa da amish.
Via via che i computer diventavano sempre più importanti per la nostra vita, scoprivo qualcosa della tecnologia che prima non avevo notato. Oltre a soddisfare (e creare) bisogni, e talvolta risparmiare lavoro fisico, la tecnologia faceva qualcos’altro. Generava nuove opportunità. Sotto i miei occhi vedevo le reti online mettere in contatto persone che avevano idee e opinioni con altre persone che diversamente non avrebbero potuto conoscere. Questi network scatenavano le passioni, intensificavano la creatività, espandevano la generosità. Nel momento in cui i grandi guru delle tendenze culturali dichiaravano che la scrittura era morta, milioni di persone iniziavano a scrivere online più di quanto avessero mai scritto prima. Proprio mentre gli esperti sentenziavano che gli individui erano ormai destinati alla solitudine, a milioni si riunivano in gruppi sempre più numerosi. Online si collaborava, si cooperava, si condivideva e si creava in miriadi di modi non previsti. Per me era qualcosa di nuovo. Freddi chip di silicone, lunghissimi cavi metallici e complessi congegni ad alto voltaggio stavano nutrendo i nostri migliori sforzi di esseri umani. Quando capii cosa avrebbero potuto fare dei computer collegati in rete (ispirare nuove idee, moltiplicare le possibilità e via dicendo), mi resi conto che anche altre tecnologie, come l’automobile, la motosega, la biochimica, e perché no anche la televisione, facevano lo stesso, solo in maniera leggermente diversa. Questo significò per me guardare alla tecnologia sotto una luce molto diversa.

Ero molto attivo nei primi sistemi di teleconferenze; nel 1984, grazie alla mia assidua presenza online, fui assunto nella redazione del Whole Earth Catalog per collaborare alla prima pubblicazione che avrebbe recensito i software dei personal computer (forse sono stato il primo al mondo ad essere assunto online). Alcuni anni dopo sono stato coinvolto nel primo gateway pubblico della neonata internet, un portale chiamato The Well. Nel 1992 ho preso parte alla fondazione della rivista “Wired”, l’organo ufficiale della cultura digitale, e ne ho curato i contenuti per i primi sette anni. Da allora vivo sotto la stella della tecnologia. I miei amici sono gli inventori dei supercomputer, dei farmaci genetici, dei motori di ricerca, della nanotecnologia, delle comunicazioni a fibre ottiche, di tutto ciò che è nuovo. Vedo il potere di trasformazione della tecnologia ovunque giri lo sguardo. Eppure non ho un palmare o uno smart phone, non mando nulla attraverso il bluetooth, e non uso Twitter.

I miei tre figli sono cresciuti senza televisione, e in casa non abbiamo ancora la banda larga né la tv via cavo. Non vado in giro con un portatile, e spesso sono l’ultimo della mia cerchia di conoscenti a entrare in possesso degli “irrinunciabili” gadget tecnologici. Vado in bicicletta più spesso che in auto; vedo i miei amici legati a doppio filo ai loro palmari, ma io continuo a tenere la cornucopia tecnologica a distanza di sicurezza, così da potermi più facilmente ricordare chi sono. Eppure, allo stesso tempo gestisco una nota pubblicazione quotidiana online, Cool Tools, che è poi una prosecuzione del mio vecchio lavoro di recensore per il Whole Earth Catalog. Nel mio studio piovono maree di manufatti spediti da venditori che sperano in un aiuto; un buon numero di essi non ne esce più. Sono circondato di oggetti. Malgrado la mia diffidenza ho scelto di avere una posizione dalla quale tenere a portata di mano la massima quantità possibile di opzioni tecnologiche.


Riconosco che il mio rapporto con la tecnologia è pieno di contraddizioni. E sospetto che anche voi ne abbiate di simili. Oggi la nostra vita è preda di una profonda e continua tensione tra i benefici dell’avere più tecnologia e la necessità personale di averne di meno. Dovrei dare ai miei figli questo o quest’altro gadget? Ho tempo di imparare a usare questo dispositivo che mi farà risparmiare tempo e fatica? E, andando più a fondo: tutta questa tecnologia che cosa assorbe dalla mia vita? Che cos’è questa forza globale che ci induce a provare amore e odio? Come dovremmo affrontarla? Possiamo opporre resistenza, oppure qualunque nuova tecnologia è inevitabile? Devo essere favorevole o scettico verso questa valanga inarrestabile di cose nuove? E ciò che decido io cambierà qualcosa? Avevo bisogno di alcune risposte che mi guidassero attraverso questi dilemmi tecnologici. Una domanda soprattutto era cruciale. Mi rendevo conto che non avevo idea di ciò che fosse davvero la tecnologia. Qual è la sua essenza? Se non avessi capito la vera natura della tecnologia, ogni volta che ne fosse uscito un pezzo nuovo non avrei avuto una cornice di riferimento per decidere fino a che grado aderirvi. Le mie incertezze sulla natura della tecnologia e il mio rapporto conflittuale con esse hanno generato una ricerca lunga sette anni che alla fine è diventata il libro che state leggendo. Le mie indagini mi hanno portato all’inizio dei tempi e in un futuro lontano. Ho scavato nella storia della tecnologia e ho ascoltato i futurologi della Silicon Valley, dove vivo, macinare scenari immaginari per ciò che verrà in seguito. Ho intervistato alcuni dei più feroci critici della tecnologia e alcuni dei suoi più ardenti sostenitori.

Sono tornato nelle campagne della Pennsylvania per trascorrere più tempo con gli amish. Ho viaggiato in villaggi di montagna nel Laos, nel Bhutan e nella Cina occidentale per parlare con gente poverissima a cui mancano i beni materiali più basici, e ho visitato i laboratori di ricchi imprenditori che cercano di inventare cose che nel giro di pochi
anni saranno considerate essenziali da tutti. Più mi spingevo a osservare da vicino le tendenze in conflitto della tecnologia, più le domande crescevano. La confusione che abbiamo su questo tema, in genere, parte da preoccupazioni molto specifiche: dovremmo consentire la clonazione umana? il continuo scambio di messaggini istupidisce i nostri figli? Vogliamo delle automobili che si parcheggino da sole? Ma via via che la ricerca procedeva mi rendevo conto che, se vogliamo davvero trovare delle risposte soddisfacenti a tutte queste domande, dobbiamo innanzitutto considerare la tecnologia come un insieme. Soltanto se ne conosciamo la storia, ne intuiamo le tendenze e le distorsioni e ne tracciamo la direzione attuale possiamo sperare di risolvere i nostri dubbi personali.

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Le pagine proposte sono tratte da Quello che vuole la tecnologia, il nuovo libro di Kevin Kelly pubblicato da Codice Edizioni (traduzione di Giuliana Olivero).

Kevin Kelly è fondatore e curatore della rivista Wired. È anche scrittore, fotografo. I suoi scritti sono apparsi su New York Times, Esquire, The Economist e altri noti periodici. Kelly ha anche diretto riviste tra cui Whole Earth Review, CoEvolution Quarterly, Signal, e alcune delle ultime edizioni di The Whole Earth Catalog. Con il fondatore di Whole Earth, Stewart Brand, ha partecipato alla creazione della comunità virtuale WELL. Ha diretto la Point Foundation, sponsor della prima conferenza internazionale degli hacker nel 1984 (prima che la parola “hacker” assumesse una connotazione negativa). Si occupa del sito www.kk.org. È autore di New Rules for the New Economy,e di Out of control. La nuova biologia delle macchine, dei sistemi sociali e del mondo dell’economia. Quello che vuole la tecnologia è il suo ultimo libro.