© Marco Merlini / LaPresse 25-10-2008 Roma Politica Circo Massimo, manifestazione nazionale del Partito Democratico contro il governo Berlusconi Nella foto il segretario del Pd Walter Veltroni durante il suo intervento National demonstration against Berlusconi government, organized by Democratic Party

Cosa dice il documento Veltroni

Una sintesi delle cose rilevanti (non tantissime, a dir la nostra)

La costruzione del documento preparato da Walter Veltroni (assieme a Giuseppe Fioroni e Paolo Gentiloni, pare), di cui è stata anticipata una bozza giovedì sera, è del tutto convenzionale: analisi del quadro esistente nella prima parte, “proposta” nella seconda (seguiva gli stessi canoni anche il testo dei “giovani turchi” circolato nel weekend, nonché le relazioni dei segretari del PCI). Nella prima parte si spiegano quindi il fallimento della maggioranza berlusconiana e il preoccupante quadro economico-sociale italiano: sono i due primi paragrafi dei sette che compongono il documento. Il terzo è dedicato all’abbozzo della proposta: generiche dichiarazioni di necessità di riforme e interventi, soprattutto nel settore del lavoro, del settore pubblico, e delle opportunità per i giovani. E un’insistenza maggiore sulla giustizia e la battaglia contro l’illegalità.

Non ci può essere sviluppo dell’Italia, se non si assume come priorità politica la lotta all’illegalità, il contrasto dei livelli politici e finanziari dei poteri criminali, la ricerca della verità sulle pagine più buie e opache della nostra storia collettiva, il prosciugamento delle ragioni sociali del consenso alle mafie nel Mezzogiorno. E’ arrivato il momento di aprire una fase nuova del rapporto tra politica e giustizia. La politica deve assumere il punto di vista dei cittadini in termini di bisogno di legalità e diritto alla giustizia, uscendo finalmente dalla contrapposizione tra giustizialismo e legittimazione dell’illegalità e proponendo a tutte le forze della giustizia un tavolo comune di riforma. Diritti individuali dei cittadini e bisogno di legalità non sono infatti separati e separabili, ma possono vivere solo insieme.

Al punto quattro appare qualcosa che – seppur ancora molto genericamente – può denotare diversamente il documento da quello che potrebbe condividere qualunque altra componente del centrosinistra: la volontà di “rinnovamento”, messa per iscritto e che allude evidentemente a qualcosa di diverso dal “tornare avanti” dei “giovani turchi”.

Una coerente strategia riformista può dunque contare su rilevanti forze sociali, unendole in un progetto che risponda ai bisogni dei più deboli facendo leva sui meriti dei più capaci. Questa strategia non può essere incardinata prevalentemente attorno ad obiettivi di difesa della realtà presente, aggredita dall’attacco della destra populista. Al contrario: l’alleanza da promuovere è tra chi ha bisogno del cambiamento, ma da solo non può realizzarlo perchè non sa, non ha, non può abbastanza e chi vuole il cambiamento, perchè sa progettarlo, ha interesse a promuoverlo, ha le relazioni necessarie per realizzarlo.

Al punto 5, abbiamo scollinato, entra in scena il Partito Democratico. Veltroni rivendica la bontà del risultato elettorale – pur definendolo evidentemente una “sconfitta” – e la sintesi del suo ragionare è: la “crisi del berlusconismo” rimette in gioco quella macchina che stava crescendo e aveva dato fiducia a “un italiano su tre”. E qui uno si aspetta che finalmente l’ex leader spieghi come mai quella macchina si sia bloccata, fino a costringere Veltroni alle dimissioni.

Così non è stato fin qui, o non lo è stato abbastanza, per responsabilità diffuse e condivise. Non si spiegherebbe altrimenti il paradosso per il quale il Pd è riuscito ad ottenere quasi il 34 per cento dei voti nel momento di massima difficoltà per il centrosinistra e di massimo consenso al berlusconismo e fatica oggi a stare sopra il 25 per cento, in piena crisi politica del centrodestra.

Il fatto è che al 25 per cento nei sondaggi il PD ci era già sceso durante il periodo in cui Veltroni era segretario. E insomma, un solido argomento che risponda alla domanda “cosa dovrebbe essere cambiato oggi rispetto alla tua dichiarazione di fallimento del 2009?”, non c’è. E con leggerezza, il documento passa a dire cosa non si deve fare: non si deve fare una cosa “frontista”, tirando dentro tutti, e non si deve fare una cosa “centrista”, corteggiando l’UDC, per capirsi. La prima è una scelta povera e priva di progetto, la seconda ci ributta nei traffici di accordi di governo e alleanze precarie: di superare il progetto bipolare, come propongono in molti, Veltroni non vuole sentire parlare.

E arriviamo al capitolo sei: ovvero, il ritorno della vocazione maggioritaria. Bisogna continuare a cercare di unire, non prendere atto delle divisioni.

Se vuole restare fedele a se stesso e soprattutto se vuole fondare la sua proposta di governo su basi solide, non politiciste, il Pd deve darsi una strategia di allargamento dell’area dei propri consensi, che faccia leva su un programma riformista, su un progetto innovativo per il Paese e su una classe dirigente fortemente rinnovata, attingendo a risorse che non siano solo quelle della politica tradizionale. Il Pd deve porsi l’obiettivo esplicito e dichiarato di allargare in modo cospicuo i suoi consensi e il suo radicamento ove oggi sono più deboli e fragili: a cominciare dal Nord, dal mondo produttivo, dalle nuove generazioni. Allo stesso modo, dopo lo scacco di una stagione di governo di gran parte delle regioni meridionali, il Pd non può accettare di considerare perduta la battaglia per la legalità e l’innovazione nel Mezzogiorno.

E arriva anche un po’ di concretezza sulle intenzioni e i principi.

Innovazione della sua proposta programmatica, che deve assumere con coraggio l’obiettivo di battere tutti i conservatorismi, compresi quelli tradizionali di centrosinistra, ponendo al centro il tema della democrazia decidente, attraverso le necessarie riforme istituzionali ed elettorali: rafforzamento dei poteri del premier e di quelli di controllo del Parlamento, regolazione del conflitto d’interessi, norme contro la concentrazione del potere mediatico e il controllo politico della Rai, differenziazione delle camere, riduzione dei parlamentari e una legge elettorale, come si legge nel documento approvato dall’Assemblea nazionale del Pd del maggio scorso, “di impianto maggioritario fondato sui collegi uninominali”.

E soprattutto, per la gioia degli sfiniti cronisti politici in cerca di argomenti polemici, un pentimento – senza ammissione di errore, però – sull’alleanza con Di Pietro.

stigmatizzare preoccupanti regressioni, incompatibili con la cultura politica e istituzionale del Partito democratico, come quelle che ha fatto registrare in questi due anni il movimento di Italia dei valori, che è passato dalla convinta sottoscrizione di un programma riformista alla legittimazione di atteggiamenti demagogici e intolleranti.

Si arriva, finalmente e faticosamente, al punto 7, dove si esplicitano le conclusioni di questo ragionamento.

Non intendiamo dar vita ad una corrente, ad uno strumento chiuso nella logica della lotta interna, ma ad un Movimento, che si proponga il rafforzamento del consenso al Pd e del suo pluralismo, coinvolgendo forze interne ed esterne al partito, tornando ad appassionare energie che si sono allontanate e rischiano di disperdersi e suscitando l’attenzione e l’interesse di settori della società italiana che la crisi politica e culturale del centrodestra ha rimesso in moto.

La cosa curiosa è l’utilizzo, nella frase conclusiva e finale del manifesto, di una formula – “una politica di riformismo e di innovazione” – che richiama le indiscrezioni degli articoli apocalittici sui gruppi autonomi dei veltroniani e dava a quei gruppi proprio il nome “Innovazione e Riformismo”.

La cosa fondamentale è quella M maiuscola nella parola “Movimento”, che indica evidentemente l’intenzione di dare una struttura, una consistenza e una progettualità a tutto questo (aggiornamento: in una versione successiva con poche correzioni il movimento è diventato minuscolo). Poi si può anche dire che non è una corrente, ma quella è una questione linguistica: la questione politica è chiarissima. Non è un fatto nuovo: durante la segreteria Veltroni la fondazione Red lanciò un tesseramento su tutto il territorio nazionale (a proposito: che fine ha fatto?). Ovviamente l’allora segretario ne disse peste e corna, e vedremo se porterà a compimento il ribaltamento dei ruoli passando da logorato a logorante. Ma ragazzi, è tornata la vocazione maggioritaria (ma anche no).

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