Criticare Kyenge

La domanda è: come si può criticare il ministro Cécile Kyenge ritenendosi legittimati a farlo? Meglio: com’è possibile farlo da destra o su giornali di centrodestra? Meglio ancora: è possibile che il sospetto di un processo alle intenzioni ogni volta debba oscurare le inerzie del ministro?

Questo non è più un dibattito da terze pagine o un evergreen per talkshow in crisi, è un problema concreto e politico che investe il governo e nondimeno una sinistra che molti imbarazzi li condivide in silenzio. Il ministro dell’Integrazione è competente anche sulle adozioni e soprattutto sulle politiche giovanili di questo paese, ma in tema di bilanci il discorso vira sempre sul razzismo o semplicemente si parla d’altro, magari di un altro ministro al quale fare le pulci di continuo – talvolta per autentiche sciocchezze – sottoponendolo a uno screening ossessivo ma, beninteso: democraticamente previsto. Il discorso non vale per la Kyenge. L’assioma l’ha ben espresso lei stessa in un’intervista su Repubblica di mercoledì: dimissioni? «Sarebbe la vittoria di chi mi ha sempre attaccato. E questa è una battaglia che riguarda tutti, non solo la mia persona». Ergo le sue dimissioni sarebbero una vittoria dei razzisti – parlava di loro, perché nell’intervista non parla d’altro – e se dovesse dimettersi sarebbe una sconfitta nostra, più che sua: la possibilità che lei possa lasciare per inadeguatezza tecnica e pratica non è contemplata, del resto non è, la sua, l’azione di un ministro in tempo di crisi: è «una battaglia».

Forse avrebbe anche ragione se lei fosse, anziché il ministro di un governo d’emergenza, soltanto la testimonial antirazzista che si sta indubbiamente dimostrando: è ciò di cui, più o meno esclusivamente, abbiamo notizia. Convegni, presentazioni di libri, cittadinanze onorarie raccolte in tutta Italia, interviste a mio dire imbarazzanti in cui spiegare che la democrazia sta morendo e che occorre promuovere appelli alle Nazioni Unite. Gad Lerner, poco tempo fa – e lo cito per paracularmi essendo lui di sinistra, ma sbaglio – ha ammesso che l’azione legislativa e amministrativa per migliorare la condizione degli immigrati è «completamente paralizzata»: ed è solo un esempio delle molteplici accuse di immobilismo mosse al ministro da qualche mese, anche se mosse perlopiù da destra. Bene: a parecchi mesi dal suo mandato, ieri, la risposta del ministro è stata questa: «Stiamo andando verso l’uccisione della democrazia. Nessuna forza politica può più tollerare questo razzismo strisciante… Mi rivolgo alle istituzioni italiane, ma anche europee e delle Nazioni Unite: bisogna rafforzare urgentemente tutti i programmi contro il razzismo».
Le questioni di merito che non attengono al razzismo – questioni di cui si occupava il suo predecessore Andrea Riccardi, per dire – sono liquidate in poche righe in fondo all’intervista: la Kyenge ha detto che quello sulla clandestinità «è un reato inutile» e che, per quanto riguarda i centinaia di profughi accampati in un palazzo romano, «il governo ha recepito le direttive europee in materia e si arriverà a un testo unico sull’asilo». Scusi se gliel’abbiamo chiesto.

Ora: sappiamo benissimo che l’intervista era a strascico della polemica – rovente – sorta dopo la pubblicazione sulla Padania dell’agenda coi prossimi appuntamenti pubblici del ministro, agenda che pure è stata meramente copiata dal sito ministeriale. Non m’interessa la polemica: è chiaro che La Padania l’ha riportata a titolo provocatorio (anche se, formalmente, ha solo riportato un’agenda pubblica) ed è chiaro che il processo alle intenzioni nel caso appare giustificato: l’hanno già scritto tutti e non lo ripeto. Ma vogliamo parlare della reazione di Repubblica?

Mercoledì il siciliano Francesco Merlo ha scritto un editoriale lunghissimo contro la Lega nordista («L’ossessione dei nuovi barbari») e l’ha condita di un odio personale e politico che sinceramente non mi scandalizza, ma che non c’è dubbio: c’è. Merlo ha scritto di «punto di non ritorno della barbarie‚ «gagliofferia ridotta ormai a una minoranza di violenti», «nocciolo duro della xenofobia», «gang di bulli squinternati» coi loro «deliri alcolici» (parlava di quattro esponenti leghisti compresi una donna e dei parlamentari) e ancora «spasmo bilioso» e «sacca di marciume». Francesco Merlo, poi, ha individuato un parallelo tra la pubblicazione dell’agenda ministeriale sul quotidiano leghista e il blog di Grillo, che «è stato attrezzato come plotone d’esecuzione con il giornalista Travaglio nel ruolo qui interpretato dalla direttrice della Padania». Non solo. A suo dire c’è anche un nesso con «le minacce orribili dei No Tav e il senatore del Pd Stefano Esposito e al cronista della Stampa Stefano Numa… le minacce degli animalisti ai ricercatori scientifici, sino agli insulti a Caterina Simonsen affetta da una malattia genetica». Tutto questo, o meglio la rubrica della Padania sulla Kyenge, «simula e surroga il temibile passo cadenzato». Il nazismo, o giù di lì. Poche righe addietro, Merlo aveva parlato di «giornalismo usato come manganello».

Ne derivano due cortesi domande, mie. La prima è se il suo articolo, e il linguaggio che adotta, debbano essere ritenuti estranei a tutto questo; se lui, cioè, pensi di giocare in un altro campionato. Tutto può essere. In caso affermativo, dunque, gli chiedo se pensa che tutto dipenda soltanto dal soggetto che muova la critica o il manganello: chi, da dove, contro chi. Di difendere i leghisti non me ne frega niente: al diavolo anche loro e le loro rubriche e i loro circenses. Ma gli altri? La domanda resta: come si può criticare il ministro Cécile Kyenge ritenendosi legittimati a farlo? Meglio: com’è possibile farlo da destra o su giornali di centrodestra? Il problema esiste anche e soprattutto per un dettaglio: a Repubblica e altrove, tutto questo, non lo fanno. La Kyenge, su Repubblica, non si può criticare anche se è un ministro talvolta imbarazzante: piuttosto le dedicano un’intervista e un lungo editoriale come quello di Merlo, che in centinaia di righe non ha neppure il fegato – e l’autorizzazione – di ipotizzare una banalissima verità: che Cécile Kyenge sarà pure un buon testimonial contro il razzismo, ma è un ministro della Repubblica che è stata nominata perché è nera e che non si può rimuovere perché è nera. Lo penso io e lo pensano tanti colleghi e politici – addirittura ministri – che evidentemente non hanno capito che è in gioco la democrazia, il ruolo delle Nazioni Unite e tutte le sciocchezze evocate per colpa di una rubrica sulla Padania.

(Pubblicato su Libero)

Filippo Facci

Giornalista e scrittore, lavora a Libero, ha collaborato con il Foglio, il Riformista e Grazia. È autore di Di Pietro, La storia vera