Cosa avrebbe potuto fare Renzi?

L'ex segretario del PD poteva evitare l'uscita di parte della minoranza dal partito? E c'è ancora qualcosa che si può fare?

(ANSA/GIUSEPPE LAMI)
(ANSA/GIUSEPPE LAMI)

Una parte della minoranza del PD – cioè la parte che ha perso il congresso del 2013 – ha deciso negli ultimi giorni di abbandonare il partito, anche se non è ancora chiaro in quanti usciranno – e non sono ancora usciti, di fatto – e gli stessi leader della minoranza per il momento non hanno fatto dichiarazioni chiare su come intendono gestire la scissione (uno di loro, il presidente della Puglia Michele Emiliano, ha già annunciato che rimarrà all’interno del PD). Le ragioni della minoranza, ufficiali e ufficiose, sono abbastanza note. Oltre a queste domande, un’altra questione è: come avrebbe potuto fare l’ex segretario Matteo Renzi a far rientrare la scissione? E c’è ancora qualcosa che potrebbe spingere la minoranza a restare nel partito?

La questione del congresso
Per accontentare la minoranza, Renzi avrebbe dovuto rimandare il congresso che, per il momento, sembra che si concluderà tra aprile e maggio. Il congresso è il momento più importante della vita di un partito, quello in cui ne vengono eletti i dirigenti e che, nel caso del PD, si conclude con le elezioni primarie per la scelta del segretario. Renzi ha voluto anticiparlo rispetto alla data prevista, cioè l’autunno. La ragione ufficiale è perché con la sconfitta al referendum del 4 dicembre Renzi considera esaurito il mandato ottenuto con le primarie del 2013 e desidera ottenere un nuovo mandato politico dagli elettori del PD. Quella ufficiosa è che Renzi vuole che il congresso si tenga tra aprile e maggio, cioè prima delle elezioni amministrative di giugno e dei due referendum della CGIL, due appuntamenti elettorali che rischiano di andare molto male per il PD.

La minoranza è favorevole al congresso, ma sostiene che se si svolgesse tra aprile e maggio non ci sarebbe sufficiente tempo per organizzare le proprie forze e discutere di un programma comune per tutto il partito, che sia indipendente dal risultato del congresso. Un’altra ragione, tra quelle ufficiose, è che le loro possibilità di vittoria al momento sono molto ridotte, mentre se il congresso si svolgesse in autunno avrebbero l’occasione di affrontare un Renzi indebolito dalle probabili sconfitte di giugno.

Per evitare l’abbandono di questi dirigenti, quindi, Renzi avrebbe dovuto cedere alle richieste della minoranza e spostare il congresso a luglio, oppure lasciarlo dopo settembre, secondo la normale scadenza; se proprio avesse voluto dimettersi, avrebbe potuto chiedere all’assemblea di nominare un segretario reggente. Non è chiaro se prendendo questa decisione in questi giorni Renzi possa ottenere lo stesso effetto, o se la minoranza abbia già deciso di abbandonare il partito. E non è chiaro nemmeno se, anche volendo, sia oramai possibile percorrere questa strada. Lo statuto del PD stabilisce che le primarie per la scelta di segretario devono svolgersi entro quattro mesi dalle dimissioni del segretario. Renzi si è dimesso domenica scorsa, quindi le primarie potranno svolgersi al più tardi il prossimo maggio, cioè troppo presto per la minoranza. L’assemblea nazionale del partito si è sciolta domenica ed era l’unico organo che aveva il potere di modificare lo statuto.

Il sostegno al governo Gentiloni
L’altra cosa che chiede la minoranza, insieme a una parte della maggioranza, è che Renzi si impegni a garantire il sostegno del PD al governo Gentiloni fino alla scadenza naturale della legislatura, nella primavera del 2018. Proprio questa garanzia è stata proposta lunedì scorso, durante la direzione nazionale del partito, con un ordine del giorno firmato dagli esponenti della minoranza ma anche dal ministro della Giustizia Orlando, che all’ultimo congresso non sosteneva Renzi ma che col passare dei mesi è entrato nella maggioranza del partito insieme alla corrente dei cosiddetti “Giovani Turchi”, di cui fa parte anche il presidente del partito, Matteo Orfini. A ottenere la maggioranza dei voti, però, è stato un altro ordine del giorno, proposto dalla maggioranza del partito e molto più vago sui termini del sostegno al governo.

Su questa questione Renzi si è esposto raramente, ripetendo in numerose interviste che a decidere sulla sorte del governo e della legislatura saranno il Parlamento e il presidente della Repubblica (una posizione un po’ ambigua, visto che il partito di Renzi è fondamentale per la maggioranza di governo). In alcune occasioni, però, Renzi ha detto che secondo lui bisogna arrivare a elezioni prima del prossimo settembre, cioè prima che, ha detto, scattino i cosiddetti vitalizi per i parlamentari alla prima legislatura (che in realtà non esistono più). Secondo i retroscena pubblicati dai giornali, da leggere sempre con una certa cautela, Renzi non vorrebbe sostenere a lungo il governo Gentiloni nel timore di logorare il partito come accadde a Bersani sostenendo il governo Monti nel corso del 2012 (fu il preludio della grave sconfitta alle elezioni del 2013), e quindi vorrebbe che si andasse alle elezioni anticipate prima della fine dell’anno.

Renzi avrebbe potuto fare qualcosa prima?
Renzi avrebbe potuto evitare la rottura di questi giorni facendo “qualcosa” nei mesi precedenti? Nei giorni caotici dopo la sconfitta al referendum del 4 dicembre, Renzi lasciò trapelare ai giornalisti la sua intenzione di tenere immediatamente un congresso anticipato. Era una soluzione che piaceva ad alcuni esponenti della minoranza, come Gianni Cuperlo e il presidente della Puglia Michele Emiliano (che in questi giorni era invece uno dei leader che avevano minacciato di uscire dal PD in caso di congresso anticipato). I bersaniani, invece, un’altra componente della minoranza, furono fin da subito contrari. Il 5 dicembre, Roberto Speranza, uno dei loro principali dirigenti, disse: «Il congresso non è la priorità, ora occupiamoci del paese».

Si può dire, quindi, che già a dicembre Renzi aveva accolto la richiesta che proveniva almeno da una parte della minoranza, cioè quella di rimandare il congresso. Per il resto di dicembre e quasi tutto gennaio le cose nel partito erano rimaste relativamente tranquille. Poi, il 25 gennaio, la Corte Costituzionale ha pubblicato la sentenza sull’Italicum, riscrivendo quasi completamente la legge elettorale voluta dal governo Renzi. Sui giornali e tra i dirigenti del PD si erano diffuse allora voci di possibili elezioni anticipate. Alcuni giornali avevano scritto che Renzi stava addirittura pensando di votare ad aprile.

In quei giorni si ipotizzava che si potesse andare alle elezioni anticipate tra aprile e giugno, quindi molto prima del congresso previsto a quel punto per settembre. La minoranza espresse una nuova richiesta, e cioè che in caso di elezioni anticipate si anticipasse il congresso. Il più duro di tutti fu il presidente della Puglia Emiliano, che disse che sarebbe stato disposto a fare “carte bollate” pur di arrivare al congresso immediatamente (Emiliano era tra coloro che, a differenza dei bersaniani come Speranza, chiedevano il congresso anticipato già a dicembre). Anche Bersani, con un’intervista piuttosto ambigua data allo Huffington Post, sembrò schierarsi per il congresso subito.

Va bene, lei chiede un cambio di rotta: congresso, legge elettorale, governo. Ma se, come si dice in gergo, Renzi tira dritto, forza, ovvero va al voto in tempi brevi senza congresso, lei che fa?
Io prima di tutto combatto, sia chiaro. E mi aspetto di non essere il solo. C’è Renzi nel PD, ma anche tanti altri. È ora che dicano qualcosa perché così si va a sbattere e si dissolve il PD. Chiedo che qualcuno apra bocca, perché non ci si può nascondere al punto in cui siamo arrivati. Non sfuggo però alla domanda e le rispondo in modo molto chiaro: se chi ha la responsabilità di decidere tira dritto, allora risponderà del fatto che non c’è più il Pd.

Quasi tutti interpretarono la sua dichiarazione come una richiesta di congresso anticipato, prima delle elezioni anticipate, e di minaccia di scissione se questa condizione non fosse stata soddisfatta. Nei giorni successivi Renzi accontentò anche questa nuova domanda, arrivata chiaramente da Emiliano e in maniera più oscura anche da parte di Bersani. Quasi negli stessi giorni, però, la possibilità di votare alle elezioni politiche già a giugno sembrò scomparire, almeno dalle possibilità di cui parlavano giornalisti ed esponenti del PD. Come ha spiegato Gianni Cuperlo nel corso della direzione nazionale di oggi, a quel punto è venuta meno la necessità di un congresso anticipato.

La minoranza, quindi, ha espresso una terza richiesta, o meglio è tornata a chiedere quel che chiedeva a dicembre: che il congresso si svolgesse regolarmente a settembre. Come abbiamo visto, Renzi ha di fatto respinto questa richiesta nel corso dell’assemblea di domenica – sostiene che solo una sua rinuncia a candidarsi possa accontentarli davvero, viste le richieste mutevoli – lasciando quindi i leader della minoranza a decidere se mettere in atto le loro minacce o se, come ha fatto Emiliano, restare nel partito.